SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO GRATUITO

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SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO GRATUITO: Ascolto telefonico e telematico per prevenire/sostenere disagi psicologici Inoltre: prima consultazione in sede gratuita Mail: donatella.ghisu@yahoo.it /telefono: 392 5543431

D.ssa Donatella Ghisu

Psicologa, Counsellor Psicologico e Socio-educativo, Anali Transazionale, Specialista in Psicoterapia Breve Strategica, Psicopedagogista, Specialista in: Disturbi alcol correlati, Chil Abuse, Psicologia forense, Disturbi dell'Apprendimento e del Comportamento, Trainer EMDR. Mi occupo di coppie, adolescenti ed adulti a livello individuale e di gruppo. Sostegno alla genitorialità, agli insegnanti nonché alle aziende pubbliche e private.

martedì 30 novembre 2010

Trailer - Il primo giorno d'inverno - The first day of winter - Le premi...

Il Binge Eating Disorder (in italiano sindrome da alimentazione incontrollata) è unIl Binge Eating Disorder disturbo del comportamento alimentare che solo di recente è stato descritto in modo chiaro ed esaustivo. Cos'è il Binge Eating Disorder – Si tratta di una patologia che spinge il soggetto a compiere grandi abbuffate, in modo veloce e vorace, finché non è completamente sazio. Perché si possa parlare di Binge Eating Disorder occorre che coesistano un certo numero di comportamenti:
  • le abbuffate devono avvenire almeno due volte alla settimana;
  • devono verificarsi per un periodo di almeno sei mesi;
  • in genere sono indipendenti dallo stimolo della fame;
  • quasi sempre avvengono in solitudine;
  • il soggetto non trova gratificazione, ma prova un senso di colpa;
  • non esistono meccanismi di compensazione (come nella bulimia: vomito, lassativi, esagerato esercizio fisico).

A causa dell'ultimo punto il soggetto è in netto sovrappeso. Infatti il Binge Eating Disorder sembra colpire il 2-3% della popolazione, ma il 30% degli obesi. In genere non colpisce adolescenti, ma soggetti fra i 30 e i 40 anni. Le cause – Ci sono solo ipotesi. La più gettonata è che il Binge Eating Disorder sia legato a uno stato depressivo del soggetto anche se non è chiaro se sia la depressione a innescare il Binge Eating Disorder o il contrario. Di certo un umore negativo (rabbia, frustrazione, noia ecc.) facilita la patologia. Capire le cause è molto importante perché a seconda della causa si può scegliere il terapeuta adatto. Dal punto di vista psicologico il soggetto affetto da Binge Eating Disorder avrebbe una scarsa autostima di sé e l'abbuffata non sarebbe che il modo per riempire il proprio vuoto interiore. Sicuramente sono cause plausibili, ma non del tutto provate. A mio avviso le cause del Binge Eating Disorder possono essere meglio capite se si esaminano gli attuali risultati nella cura della malattia. Infatti, come è spiegato più avanti, una delle strade più promettenti è quella dell'impiego degli inibitori della ricaptazione della serotonina; storditi dagli effetti metabolici del cibo (frutto dell'azione di insulina e glucagone), ci si è ultimamente dimenticati degli aspetti psichici. L'assunzione di cibi appetibili (in particolare carboidrati: classico l'esempio della Nutella) favorisce la produzione di serotonina: il cibo diventa cioè un antidepressivo naturale. Logico pensare che in alcuni soggetti possa scattare un meccanismo di compensazione: la serotonina prodotta dà benessere e ciò ci spinge ad assumere altro cibo, finché il meccanismo si blocca e il soggetto, realizzando la sua situazione, ricade nel senso di colpa. La NES (Night-eating syndrome) – Tale tesi  può essere ulteriormente avvalorata dalla sindrome dei mangiatori notturni, studiata per la prima volta nel 1955 da Albert Stunkard: alcuni soggetti presentano le stesse caratteristiche del Binge Eating Disorder, ma le loro abbuffate avvengono solo di notte. Dopo circa 40 anni di studi, Stunkard è giunto alla conclusione (1999) che in tali soggetti esiste un'inversione del ritmo ormonale giorno-notte (melatonina che influisce sul sonno e leptina che influisce sull'appetito). Chi soffre di NES non sarebbe altro che un soggetto affetto da Binge Eating Disorder con ritmo giorno-notte invertito. Anche per chi soffre di NES si sono ottenuti risultati con le stesse cure impiegate nel Binge Eating Disorder.
I casi "mascherati" – In realtà probabilmente il Binge Eating Disorder non è altro che una condizione permanente di una situazione che può riguardare tutti. L'eccessiva gratificazione del cibo (a causa dei processi ormonali antidepressivi che si innescano) per contrastare una situazione potenzialmente depressiva è sicuramente non patologica e comune a molte persone. Addirittura alcuni soggetti non riescono a evitare il sovrappeso solo perché incorrono periodicamente nel fenomeno dell'abbuffata antidepressiva. Ovvio che se hanno una coscienza salutista riescono a limitare le occorrenze e assumono un comportamento non patologico.  
Le cure farmacologiche – Le cure sono di due tipi, psicologiche e farmacologiche. Queste ultime si basano su antidepressivi (i serotoninergici, cioè gli inibitori della ricaptazione della serotonina come il citalopram o la paroxetina). Funzionano bene, ma hanno il difetto che dopo pochi mesi i risultati si attenuano.
Le cure psicologiche – Diventano pertanto indispensabili le cure psicologiche, basate sul controllo dell'assunzione di cibo con una variazione delle abitudini alimentari fino ad arrivare a una vera e propria coscienza alimentare. Raggiunto quest'ultimo stadio il soggetto è in grado di limitare le abbuffate, diventando un caso "mascherato". Ovviamente, se nel frattempo la personalità o il vissuto evolvono positivamente, verranno anche rimosse tutte le cause all'origine della depressione, rendendo inutile il meccanismo di compenso che è alla base del Binge Eating Disorder.

dott.ssa Donatella Ghisu
Psicologa, Psicopedagogista
Counsellor psicologico e socio-educativo
Psicoterapia breve strategica
Psicologa forense

Linee-guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi di abuso sessuale e maltrattamento ai danni di minori.


Linee-guida per la segnalazione e la presa in carico dei casi di abuso sessuale e maltrattamento ai danni di minori.


Il percorso metodologico

Nel momento in cui i servizi locali, socio-assistenziali o sanitari, gli operatori della scuola oltre agli organismi di Polizia, nell’esercizio delle proprie funzioni, vengono a conoscenza o rilevano una situazione di sospetto maltrattamento/abuso, deve attivarsi tempestivamente il collegamento multidisciplinare finalizzato alla presa in carico del caso.

Dalla segnalazione agli interventi di competenza dell’Autorità Giudiziaria.

L’operatore sociale o sanitario che per primo riceve la segnalazione o viene a conoscenza del caso deve attivare fin da quel momento, rispettivamente l’U. O. A. di N. P. I. e/o il Servizio di Psicologia, ove esistente o il Servizio socio-assistenziale di riferimento per quel territorio al fine di assicurare da subito la necessaria interazione tra i servizi competenti ed in attesa di rapportarsi con l’équipe multidisciplinare di riferimento, in raccordo con la quale andrà seguito ciascun caso.

Nell’ipotesi in cui la prima conoscenza del caso sia acquisita da operatori di servizi/enti diversi da quelli socio-assistenziali e sanitari, gli stessi devono segnalare la situazione alla Magistratura ed attivare contestualmente uno dei due servizi (socio-assistenziale o sanitario).

I servizi dando priorità assoluta ai casi di sospetto abuso/maltrattamento, effettuano  una prima valutazione congiunta della gravità della situazione, al fine di:

  • acquisire ulteriori elementi a sostegno della relazione da inviare all’Autorità Giudiziaria, fermo restando che la segnalazione andrà effettuata qualora le dichiarazioni del minore o gli indicatori a livello psico-affettivo e fisico rendano plausibile l’esser stato vittima di abuso o maltrattamento;
  • verificare se sussistono elementi di tale gravità da rendere opportuno un provvedimento in merito alla collocazione del minore.
Gli operatori dei servizi sociale e sanitario che seguono il caso, effettuano la segnalazione congiunta alla Magistratura qualora non sia già intervenuta una segnalazione da parte di chi sia venuto a conoscenza del caso.

È necessario ricordare che, in base all’art. 403 del cod. civ., gli operatori dei servizi qualora ravvisino una situazione di grave pregiudizio per il minore sì urgente da non consentire l’emanazione di un provvedimento di limitazione della potestà da parte del Tribunale per i Minorenni, anche su richiesta dell’Autorità di Polizia o di propria iniziativa, possono collocare il minore in luogo sicuro sino a quando non si provveda in modo definitivo alla sua protezione.


Modalità della denuncia

Qualora gli elementi acquisiti non consentano di ipotizzare la sussistenza di un vero e proprio reato, la segnalazione va inviata esclusivamente alla Procura presso il Tribunale per i Minorenni.

La denuncia deve essere inviata a:

Ø      Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario
Ø      Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni.

La denuncia deve essere effettuata per iscritto, deve essere analitica e deve descrivere le dichiarazioni, le esperienze, gli atteggiamenti e i comportamenti del minore in modo chiaro e con la massima obiettività.

Qualora l’operatore ravvisi l’urgente necessità di documentare a livello sanitario tracce che paiono riconducibili ad esperienze traumatiche, potrà rivolgersi alla Polizia Giudiziaria per gli opportuni approfondimenti sanitari.

Coinvolgimento della famiglia

Prima di intraprendere attività finalizzate a coinvolgere i genitori nel riconoscimento dell’abuso e dei problemi familiari che l’hanno provocato è indispensabile che gli operatori dei servizi socio-assistenziali e sanitari prendano preventivo contatto con l’Autorità Giudiziaria Minorile o la Procura Penale, onde evitare di compromettere l’esito di eventuali atti d’indagine penale in corso o di urgente effettuazione.

Questo perché le iniziative di informazione intempestive verso persone coinvolte possono pregiudicare gravemente gli stessi atti d’indagine.

Proposte formative

La diffusione della consapevolezza ed attenzione verso i fenomeni di abuso e maltrattamento nonché di capacità professionali tali da far fronte a casi concreti sono le promesse fondamentali per rendere operative le presenti linee-guida.

Le attività di sensibilizzazione e formazione in materia di abuso e maltrattamento ai danni di minori si potranno svolgere su diversi livelli di contenuto ed approfondimento.

Æ     Sensibilizzazione e formazione di base

Le attività formative sono rivolte a tutti gli operatori che seguono e sostengono il processo di crescita del bambino presso le diverse istituzioni a ciò preposte, possibilmente in momenti comuni che coinvolgano le diverse professionalità interessate.

Obiettivo delle attività formative di questo primo livello sarà di sviluppare le capacità di ascolto del bambino per riuscire a rilevare gli eventuali segnali di disagio. Di conseguenza saranno fornite alcune indicazioni precise sul percorso che, dalla raccolta del segnale, porta alla segnalazione alle autorità giudiziarie, al coinvolgimento dei servizi sociali e sanitari competenti.

                             
È di fondamentale importanza che ogni adulto che entra in relazione col bambino,  rispetto al suo lavoro, abbia un livello minimo di conoscenza sul come riconoscere e rilevare segnali di disagio e/o richieste di aiuto del minore e sul percorso da attivare al fine di assicurare l’adozione tempestiva di adeguate misure di tutela da parte delle autorità competenti.

La formazione e sensibilizzazione di base deve pertanto coinvolgere tutti gli operatori dell’area socio-assistenziale, sanitaria e psicologica. Successivamente, a ricaduta, la Regione in accordo coi Provveditorati agli Studi, estende tali attività di sensibilizzazione agli operatori dell’area scolastica
 e socio-educativa, avvalendosi anche della collaborazione degli stessi operatori dei servizi sociale e sanitari.

lunedì 29 novembre 2010

Aspetti e benefici psicologici dell’allattamento al seno

La donna che,  nella società occidentale, vuole allattare al seno, si trova oggi sottoposta a molte pressioni e conflitti di carattere psicologico. Vive una contraddizione fra il ruolo di donna e quello di mamma, che nel proprio ambiente sono visti come competitivi fra loro; si trova a muoversi "controcorrente", seguendo con il bambino un approccio che si discosta notevolmente dai modelli culturali proposti; la capacità di autoregolazione del neonato e la competenza materna nel comprendere e rispondere in modo appropriato ai suoi bisogni, vengono continuamente messe in dubbio. Si insinua poi paradossalmente che lo stress e l’insicurezza, generati da questo stato di cose, siano invece una conseguenza negativa dell’allattamento al seno. 
Mancanza di esperienza diretta.  
Le madri di oggi sono state bambine nel momento di massimo "boom" del latte in polvere; sono cresciute giuocando con bambole accessoriate di biberon, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo. 
L’allattamento è divenuto sempre più raro in pubblico (anzi, spesso condannato e vietato) e nella propria famiglia d’origine. Questo priva la donna di un esempio diretto a cui riferirsi quando ha un neonato fra le braccia (anzi, il primo modello che la madre incontra è ciò che ha visto fare nel reparto di maternità). I semplici gesti di portare, consolare, allattare un bambino sono affidati al suo solo istinto, che però è confuso dai messaggi contrastanti e contraddittori che percepisce ogni giorno intorno a sé. Le informazioni trovate sui libri e provenienti dai Mass Media, spesso condizionati da interessi commerciali in contrasto con quelli di madri e bambini, hanno sostituito il background sociale e culturale. 

Gli esperti dell’allattamento. 
Una certa cultura medica ed anche psicoanalitica hanno finito per dipingere la maternità come una cosa complessa, difficile, rispetto alla quale è facile commettere errori e provocare danni irreparabili al proprio figlio. La competenza materna viene svalutata e la donna facilmente viene colpevolizzata per le scelte che effettua quando segue la sua intuizione. Ella sente quindi la necessità di rivolgersi ad "esperti" più o meno qualificati, che la sollevino da una responsabilità così grave indicandole il modo "giusto" di agire in ogni circostanza. Si dimentica così che esperto è colui che esperisce, e cioè in primo luogo i protagonisti stessi dell’esperienza: la madre e il bambino.

L’ansia degli altri. 
La donna che ha appena partorito spesso è spessodepressa e ansiosa e questo è attribuito ad un effetto della tempesta ormonale che sta subendo. 
C'è tuttavia da chiederti quanta di questa ansia sia, in effetti, determinata da fattori socioculturali (la sensazione di non essere in grado di controllare più la propria vita, le squalifiche ricevute dall’ambiente alla propria autostima...). E quanta di quest’ansia sia in realtà trasmessa alla madre dalle persone che la circondano... 
Una neo-mamma immersa nell'esclusivo rapporto col neonato provoca negli altri forti reazioni emoztive ed in assenza di una cultura che definisca la donna come competente ad occuparsi del proprio piccolo, la conseguenza può essere un comportamento ansioso del prossimo (marito, parenti, pediatra...) e forti interferenze nel rapporto diadico madre-bambino. Quando la mamma allatta al seno tutto ciò si verifica in misura ancora maggiore e la donna deve imparare a "tapparsi le orecchie" per non sentire i continui commenti, spesso pessimistici o allarmistici e comunque contraddittori, di tutti coloro che pensano di sapere più di lei cosa è meglio per lei e per il suo piccolo.

Pressioni sociali

Lavoro fuori casa. Le famiglie di oggi spesso hanno bisogno di due redditi per poter sopravvivere,e questo in particolar modo se hanno bambini. Le leggi italiane sono fra le più favorevoli all’allattamento, consentendo un periodo retribuito dopo il parto se si resta a casa con il bambino e in seguito dei permessi di allattamento che consentono di assentarsi dal luogo di lavoro. Tuttavia queste facilitazioni di recente sono state ridotte sia sul piano dell’orario che su quello economico, costringendo molte donne a non usufruirne per bisogno di soldi o per non perdere il lavoro. Inoltre continua a mancare, per alcune categorie di lavoratrici autonome, un certo tipo di sostegno economico o almeno fiscale, che permetta loro di sospendere o perlomeno ridurre il lavoro durante il periodo dell’allattamento. Tutto ciò può generare l’opinione che l’allattamento al seno sia un lusso che poche si possono permettere; gli alti costi, a fronte del reddito di un lavoro fuori casa, dell’allattamento artificiale (latte in polvere, malattie più frequenti, baby sitters) rientrano in un sistema di vita universalmente diffuso, e quindi non vengono notati facilmente.
Aspettative sociali. Ci si aspetta che la donna che è diventata madre non modifichi affatto il suo stile di vita, ma riprenda al più presto il ritmo e l’organizzazione delle giornate precedenti alla maternità. Spesso il bambino viene vissuto o definito come un peso, un qualcosa che lega e che estrania dal contesto sociale, richiedendo sacrifici alla madre (ad es. diete particolari) e a tutta la famiglia (condizionando tutti agli orari delle poppate e dei sonnellini del bambino, impedendo di frequentare determinati luoghi perché "inadatti" al neonato, ecc.). Il biberon, potendo essere dato al neonato da chiunque, viene poi proposto come la soluzione per "liberarsi" di questo scomodo impedimento.
Parte del problema nasce dall’equivoco che il neonato abbia bisogno di seguire una vita regolare e monotona, cambiando poco ambiente e mangiando e dormendo ad ore prefissate. Questa idea non ha nessun fondamento biologico: i neonati cambiano continuamente i loro ritmi, e si adattano con facilità ai tempi ed agli spostamenti degli adulti, purché possano stare in contatto costante con la mamma ed allattati quando ne manifestano il bisogno.
Una società a misura di adulto. L’individuo per il quale è pensata e strutturata la nostra società è adulto, giovane, alto, sano e possibilmente maschio. L’organizzazione, gli spazi fisici e gli orari dei servizi, dei trasporti, degli uffici pubblici, delle aree commerciali, dei luoghi di svago sono concepiti e realizzati solo per adulti senza bambini al seguito, o al limite solo per bambini forniti di biberon. Trovare un posto dove cambiare un pannolino, ma ancora di più dove sedersi ed allattare quando il bambino piange, spesso è molto difficile. Questo scoraggia le donne dal muoversi insieme al bambino, spingendole o a svezzarlo per poterlo lasciare a qualcun altro, o a chiudersi in casa con lui.

Modelli culturali.

Questo è l’aspetto che più di altri aiuta capire quale sia effettivamente  il limite di base che comprende tutti gli altri, anzi, che è fonte di tutti gli altri limiti: Il limite vero è la società stessa intrisa com'è nella cultura del biberon e della separazione.
Spesso si sente dire che bastano tre, sei, otto mesi di allattamento, senza precisazioni ulteriori; o che il bambino "è grande abbastanza": ma grande per cosa? Per non aver più bisogno del latte materno dal punto vista nutrizionale? Da quello immunologico? O forse per non aver più bisogno del contatto stretto e frequente con la sua mamma? 
Molti articoli sono stati dedicati a questo argomento dai quali risulta abbondantemente chiaro che l'allattamento protratto ben oltre l'anno non solo è la cosa migliore dal punto di vista della salute fisica ed emotiva del bambino, ma  ha anche solide basi evoluzionistiche. É altresì evidente che la donna che allatta ne trae benefici notevoli. Ergo: l'allattamento è una cosa giusta e naturale
Tuttavia, paradossalmente,  non è sempre facile a casua dei troppi ostacoli presenti proprio nella conduzione quotidiana dell'allattamento.
 
Considerazioni psicologiche

Ogni madre che ha allattato un bambino oltre i dodici mesi di vita conosce la tenerezza e l’intimità generati dall’allattamento di un piccolo essere, grande a sufficienza per parlarne. Non abbiamo bisogno di leggere su riviste mediche che l’allattamento materno continuato dà soddisfazione sia alla madre che al bambino. Ma è mai stato pubblicato qualche documento riguardo a questi benefici?
Un articolo scritto dalla psichiatra L.R. Waletzky consiglia lo svezzamento naturale. L'autrice considera traumatico per il bambino lo svezzamento forzato e dice che la maggior parte dei consigli che riguardano lo svezzamento dati dai pediatri “si basa su considerazioni e pregiudizi personali e non su evidenze cliniche”. Aggiunge: “Togliere a un bambino in modo brusco e prematuro l’esperienza emotiva più soddisfacente che egli abbia mai conosciuto potrebbe (...) portare a una significativa e immediata angoscia che si può protrarre nel tempo (...). Un simile approccio considera l’allattamento solo come “fonte di latte” e non riesce a concepire il suo significato come mezzo di conforto, piacere e comunicazione per la madre e per il bambino”.

Le madri che allattano al seno vedono i loro bambini in una luce più positiva 

È scarsa la documentazione sulle ricerche riguardo agli aspetti psicologici dell’allattamento materno. Uno studio, che si occupa specificamente di bambini allattati per più di un anno, mostra un legame significativo fra la durata dell’allattamento e l’inserimento sociale dei bambini fra i sei e gli otto anni. Questa ricerca si è basata su valutazioni fatte dalle madri di questi bambini e dai loro insegnanti Nelle parole dei ricercatori: “Ci sono tendenze statisticamente significative che dimostrano che i disturbi del comportamento diminuiscono con l’aumento della durata dell’allattamento materno”. Molti studiosi sono stati cauti nell’interpretare questi risultati, dicendo che non hanno verificato scientificamente le differenze dell'interazione madre-bambino nell’allattamento materno e in quello artificiale (ciò potrebbe chiarire le differenze osservate nell’inserimento sociale dei bambini più grandi). Ma non ha molta importanza se il miglior inserimento di un bambino è dovuto all’allattamento in sé, o ai comportamenti materni che sono tipici di donne aperte all’idea di allattare i loro bambini per un anno o più. Quello che conta è il risultato: più i bambini sono stati allattati, migliore è stato il loro inserimento sociale. La relazione tra durata dell’allattamento materno e adattamento sociale è stata più forte e coerente quando il comportamento dei bambini è stato valutato dalle madri piuttosto che dagli insegnanti (sebbene per entrambe l’associazione di questi due fattori sia stata significativa), il che suggerisce che le madri che allattano per periodi più lunghi sono portate a vedere i loro bambini in una luce più positiva rispetto alle madri che non lo fanno.

Sono convinta che molte donne sarebbero d’accordo nell’affermare che l’allattamento  aiuta a rapportarci nei confronti dei propri figli in una maniera più positiva. Ci aiuta a sentirci più vicine e affettuose, il che è particolarmente utile per superare le pretese irrazionali e le crisi emotive dei bambini fra gli uno e i tre anni. Anche quando mi sento molto tesa, quando mi siedo per allattare il mio bambino più piccolo succede che alla fine della poppata quasi sempre ci alziamo tutti e due rilassati e allegri.

Gli atteggiamenti culturali influiscono anche sui medici

Quando i medici danno consigli sullo svezzamento, si basano sui risultati della ricerca medica? A quanto pare no, poiché non c’è nessuna indicazione che attesti che l’allattamento materno oltre il primo anno di vita abbia qualche effetto negativo; d’altra parte ci sono ampie prove dei suoi effetti benefici. Allora, su che cosa si basa il consiglio spesso sentito che risuona così: “Svezzate il bambino a un anno”?
Probabilmente, tanti fattori vi concorrono. Uno fra questi può essere rappresentato semplicemente dalle aspettative culturali o, come dice la Waletzky, “dal pregiudizio personale”. Come tutti, anche i medici sono influenzati dalle tendenze culturali. E la tendenza dei genitori nell’allevamento dei figli al giorno d’oggi è quella di avere aspettative di sviluppo precoce e indipendenza anticipata. L’enfasi per lo svezzamento anticipato va di pari passo con la tendenza generale a incoraggiare l’indipendenza precoce. Ironicamente, secondo la Waletzky e molti altri, un precoce svezzamento forzato può ostacolare proprio lo sviluppo emotivo del bambino, e aumentarne la dipendenza.
Un altro fattore che influisce sugli atteggiamenti assunti verso lo svezzamento può essere la vita frenetica della nostra società. Allattare senza restrizioni non sembra compatibile con lo stile di vita moderno. Molti articoli sullo svezzamento esprimono implicitamente l’idea che le madri vogliano smettere di allattare appena le capacità digestive dei loro figli lo rendano possibile.
Può anche essere che i medici, come tutti, siano influenzati da pregiudizi culturali che considerano il seno come un richiamo sessuale. Un bambino abbastanza grande per parlare può essere considerato troppo grande per trovare conforto fisico al seno della mamma.
Il nocciolo della questione può essere semplicemente spiegato dal fatto che nella nostra cultura non è comune allattare per più di un anno, quindi la maggior parte delle persone suppone che la madre di un bambino che abbia compiuto l’anno desideri svezzarlo.

Concetti erronei

Alcuni medici possono essere del parere che l’allattamento al seno possa interferire con il desiderio di un bambino di mangiare altri cibi. Eppure non c’è niente che dimostri che i bambini che ancora poppano tendano maggiormente a rifiutare cibi in aggiunta al latte materno, rispetto ai bambini già svezzati. Infatti, nei paesi del terzo mondo, dove l’appetito di un bambino malnutrito fra l’anno e i tre anni può essere d’importanza critica, la maggior parte dei ricercatori consiglia di proseguire con l’allattamento materno anche nel caso di bambini gravemente malnutriti, suggerendo di aiutare il bambino malnutrito non con lo svezzamento, ma arricchendo la dieta della madre, per migliorare la qualità nutritiva del suo latte e, offrendo al bambino cibi più variati e gustosi per migliorare il suo appetito.






Molti medici son convinti che le madri considerino l’allattamento al seno un fastidio ipiuttosto che un piacere, perciò è molto importante dire al medico che si desidera continuare ad allattare. Se la madre non esprime chiaramente un’opinione diversa, il medico potrebbe pensare che le uniche cose che lei tiene in considerazione siano la nutrizione del bambino e la propria comodità.
Esprimere il proprio punto di vista con sicurezza è probabilmente il modo migliore per influenzare positivamente le idee del medico. Per esempio, si potrebbe dire “Gaia ed io stiamo veramente godendo il nostro rapporto di allattamento. Sembra che le faccia bene: è una bambina felice e cresce così bene”. Paragoniamo questo con un approccio meno sicuro: “Non sono sicura se sia giunto il momento per svezzare Gaia. L’allattamento al seno non sembra che le faccia male, veramente. Pensa che possa continuare?”. 
Quale dei due modi solleciterà più probabilmente una risposta positiva sul proseguire l’allattamento? A voi la risposta...

domenica 28 novembre 2010

❤•´ *`•.❤¸Time After Time - Cyndi Lauper❤•´ *`•.❤¸

L’INTERVENTO STRATEGICO NEI CONTESTI EDUCATIVI: Comunicazione e problem-solving per i problemi scolastici

La psicoterapia breve strategica
(di Giorgio Nardone)
OVVERO:
Comunicazione e problem solving per i problemi scolastici.
UNO STRUMENTO OPERATIVO PER GLI INSEGNANTI
Partendo dal presupposto che: 
OGNUNO DI NOI COSTRUISCE RAPPRESENTAZIONI DEL MONDO, DI SÉ E DEGLI ALTRI CHE COSTITUISCONO UN SISTEMA DI SICUREZZA ED IDENTITÀ PERSONALI CHE RESISTONO AL CAMBIAMENTO.
Diversamente dai modelli tradizionali, nei quali il cambiamento è considerato un processo lungo, faticoso e difficile da ottenere, il modello al quale fa riferimento tale approccio, considera il cambiamento una costante.

Tradurre una mole di  studi e ricerche ha portato a dimostrare la loro efficacia ed efficienza in ambito clinico, per far sì che fosse possibile applicarle in un contesto educativo.

Invece di condurre insegnanti, educatori e operatori psico-sociali alla coscienza dell’origine dei loro allievi, l’attenzione è stata concentrata sulle loro tentate soluzioni disfunzionali: ossia su quelle manovre messe in atto dai soggetti nell’intento di combattere il problema, che invece di risolverlo, lo complicano.

Strategie e tecniche dall’apparenza semplici, quali raffinate suggestioni e ristrutturazioni, paradossi e trabocchetti comportamentali sono in grado di condurre i soggetti ad esperire e percepire in modo nuovo e diverso la realtà del problema che tentavano di risolvere.


Allo scopo di cambiare il gioco senza fine e senza fini di chi è imbrigliato in un problema sono state elaborate strategie e tecniche d’intervento in grado di produrre in tempi brevi i RISULTATI.


Il modello ARISTOTELICO:
prevede che per risolvere un problema
sia indispensabile lo svelamento delle sue cause
e delle sue origini, utile ed efficace
 in molti casi ma inefficace e talvolta disfunzionale
nelle applicazioni a problemi complessi
come le interazioni umane.
PER TALE MODELLO, basato sulla direzione epicurea, eraclitea e socratica:
È infatti NECESSARIO LO STUDIO ATTENTO DI COME QUESTI PROBLEMI FUNZIONANO E SULLA BASE DEL LORO FUNZIONAMENTO LA MESSA A PUNTO DI SPECIFICHE TECNICHE D’INTERVENTO.

Ma è necessario ricordare che:  <<I problemi umani nelle loro diverse forme possono essere il prodotto delle interazioni che ogni soggetto costruisce con la realtà che vive. In altri termini “ognuno costruisce la realtà che poi subisce”. Da qui la ricerca che arrivò ad affermare: “I disturbi psicologici sono una realtà che, studiata nel suo specifico contesto, esprime sequenze comportamentali caratterizzate da una propria logica ragionevole”>>.
(Gregory Bateson)

L’INTERVENTO STRATEGICO NELLA SCUOLA:

Nei primi mesi del 1992, un’insegnante di sostegno a un bambino con handicap psico-motorio, di nome Giulio, inserito in una scuola primaria della provincia di Bologna, durante un incontro di formazione, parlò privatamente ai formatori, di alcune difficoltà che da circa un anno incontrava nella classe ove l’allievo era inserito. Il problema, ormai senza soluzione per tutti gli operatori scolastici, consisteva in continui maltrattamenti che il bambino seduto dietro Giulio, riservava allo stesso Giulio. Dalla descrizione Francesco sembrava essere il ‘Pierino’ della classe con comportamenti oppositivi e provocatori verso tutti gli insegnanti e il personale scolastico, con atteggiamenti offensivi verbali e fisici, verso Giulio. L’insegnante descriveva una situazione drammatica aggravata da una escalation tra Francesco e gli insegnanti. Più molestava Giulio, più gli insegnanti lo punivano e, più veniva punito, più lui picchiava Giulio. Quest’ultimo, ovviamente, non riusciva ad opporre alcuna resistenza per difendersi dai maltrattamenti. Il rapporto tra Francesco e gli insegnanti s’era inasprito tanto che si rifiutava di svolgere le attività scolastiche anche più semplici e il suo profitto era sempre più scadente.
L’insegnante di sostegno, delusa e amareggiata asserì d’averle provate tutte: dalle spiegazioni sulla condizione fisica di Giulio ai richiami, i rimproveri e tutto ciò che casi del genere possono far pensare. Si dichiarò stanca e pronta a seguire qualsias consiglio, pur di sbloccare e superare la situazione.Fu così costruita una strategia adatta per il caso e che tenesse in considerazione alcuni fattori fondamentali:


1)      evitare spiegazioni causalistiche sul perché del  comportamento di Francesco;
2) far sospendere le soluzioni messe in atto fino a qual momento  perché inefficaci e anche controproducenti;
3) provocare un piccolo cambiamento ed osservare i risultati.
Per soddisfare queste condizioni si doveva costruire qualcosa che,  strategicamente, fosse completamente nuovo e sorprendente per  Francesco. E nello stesso tempo abbastanza convincente per l’insegnante  da indurla ad abbandonare i vecchi tentativi per sostituirli con altri  in grado di portare dei cambiamenti e sbloccare la situazione.
Si pensò alla ristrutturazione quale tecnica da utilizzare. Tale tecnica mira a far sì che una persona pensi alle cose in modo diverso, che veda la realtà sotto un’altra luce, prendendo in considerazione fattori prima  non considerati perché non percepiti.
Non si cambia il valore semantico di ciò che la persona esprime ma si  cambiano le cornici nelle quali inserire il significato.
L’insegnante fu così informata della necessità di interrompere i tentativi operati fino ad allora e ormai prevedibili e inefficaci per tentare qualcosa in grado di sorprendere Francesco e fargli cambiare atteggiamento verso Giulio.


Il nuovo comportamento dell’insegnante prevedeva la sospensione elle richieste, messe in atto fino ad allora, dirette a indurre Francesco fargli abbandonare i suoi comportamenti offensivi.
Al contrario ora l’insegnante doveva rivolgersi a lui dicendo: <<Francesco,  ho capito l’importanza e l’utilità del tuo comportamento e dei tuoi atti ostili. Scusami se fino ad oggi t’ho trattato male, ma non mi ero accorta che con i tuoi comportamenti dispettosi verso Giulio fai sì che tutti gli insegnanti e gli altri si occupino di lui. Sei un ragazzino sensibile e ti sei reso conto che lo stavamo trascurando. Certo, questo ti arreca qualche piccolo fastidio, come le continue punizioni che sei costretto a subire ma, sicuramente, questo è trascurabile. Tu, ti sei messo in secondo piano per lui. Bravo, maltrattandolo gli permetti di ottenere attenzioni dagli altri>>.
Fu la stessa insegnante che nel successivo incontro dichiarò che dopo l’applicazione della tecnica suggerita, di aver notato cambiamenti straordinari. Il giorno stesso Francesco sembrava diverso dal solito: era taciturno, e rimase per molto tempo da solo, come se stesse riflettendo. Si limitò a pochissimi maltrattamenti, soprattutto verbali, tanto che Giulio invece di mostrarsi offeso, sorrideva.
Nei giorni successivi i maltrattamenti diminuirono ancora e furono affiancati da piccole e brevi attenzioni verso Giulio e verso le attività scolastiche. I cambiamenti di Francesco continuarono e giunsero al punto di aiutare Giulio in attività pesanti come accompagnarlo in bagno o altro. Inoltre anche l’attenzione verso lo studio e il suo rendimento aumentarono notevolmente.
Dopo 4 anni, l’insegnante informò della stabilità dei risultati raggiunti sia verso Giulio sia verso il profitto.                    


Il fatto è che sempre di più agli insegnanti vengono richieste capacità relazionali che permettano loro di gestire situazioni problematiche. Come si interviene con bambini e ragazzi capaci di mettere in difficoltà gli adulti?
Quali sono le modalità comunicative più efficaci?
Raccontando situazioni problematiche quotidiane, si può andare alla ricerca di soluzioni apparentemente semplici ma capaci di innescare processi di cambiamento efficaci.
Negli incontri che si attivano nelle scuole la parte teorica fa continui riferimenti all'analisi dei più tipici problemi comportamentali.
Non si va alla ricerca di una causa spesso oscura, ma piuttosto si cerca di costruire insieme soluzioni operative concretamente attuabili.

Scopo di tale modello è, quindi, l’elaborazione di tattiche e tecniche che l’insegnante può utilizzare allo scopo di fronteggiare e risolvere le difficoltà che incontra nella sua classe.
Ovvero:
costruire uno strumento OPERATIVO per gli insegnanti, che permetta loro di sapere cosa e come per risolvere effettivamente e in tempi brevi i problemi scolastici.
PRIMO ASPETTO:
L’insoddisfazione degli insegnanti davanti
alle teorie  psicopedagogiche di tipo causale lineare.

L’insegnante, di fronte a problemi concreti dei bambini, quali
iperattività, aggressività, ecc, chiede aiuto ai tecnici, ma
invece di indicazioni operative
riceve teorie e spiegazioni del perché, delle sue origini e cause,
senza però con queste riuscire a risolvere il problema.

Similmente, ciò ricorda <<l’ameba di una storiella che un giorno
si recò dal saggio della foresta
per un consiglio su come diventare una farfalla e dove
ricevette una lunga dissertazione sul perché, sulle cause
ed origini di questo suo desiderio. Soltanto sulla via del ritorno,
riflettendo sul consiglio del saggio, si accorse
che non gli era stato detto come e cosa dovesse fare
per diventare una farfalla>>


SECONDO ASPETTO:

Nella cultura psicopedagogica, e della scuola in genere, persiste l’idea
che il cambiamento sia qualcosa di difficile da raggiungere, se non
attraverso faticose ed estenuanti introspezioni e teorizzazioni sulle cause
e le origini di uno stato indesiderato e poco funzionale.


PRETESA: individuare soluzioni che possano risolvere in modo definitivo
il problema.

E’ IMPORTANTE RICORDARE CHE:
 <<Un cambiamento inizialmente piccolo nel circolo vizioso dell’interazione, se adeguatamente e strategicamente inserito, dà avvio a un altro circolo, nel quale un affievolirsi della ‘soluzione’ porta a un affievolirsi del problema, chea sua volta porta a un affievolirsi della ‘soluzione’ e via di seguito>>
 (Fisch et al, 1982)

QUALE UTILITA':
Fornire l’operatore scolastico di strategie  e tecniche in grado di aiutarlo a operare efficacemente davanti alle iniziali difficoltà degli allievi.

OBIETTIVO:
Aggiungere alle conoscenze e competenze che l’insegnante già possiede, le abilità di PROBLEM-SOLVER.

PERTANTO:
Ogni intervento è una ricerca-intervento centrata sull’analisi di casi reali!

QUESTO PERMETTE DI:
Ø       lavorare direttamente sui problemi concreti presenti nel gruppo classe; 
Ø       sperimentare l’efficacia di alcuni interventi e l’inefficacia di altri;
  Ø       evidenziare e isolare le categorie di problemi che compaiono con più frequenza e per le quali sono stati elaborati protocolli con sequenze definite di comportamento e comunicazione da applicare.           


PRINCIPALI CATEGORIE DI PROBLEMI EMERGENTI

v       disturbo da deficit di attenzione con iperattività;
v       disturbo oppositivo-provocatorio:
v       mutismo elettivo;
v       disturbo di evitamento;
v       conflitto, ostilità e litigi fra due (o più) allievi. 

Ognuna di tali categorie possiede un suo protocollo composto da: 
Ø       definizione chiara del problem 
Ø       analisi del sistema interazionale e delle tentate soluzioni; 
 Ø       definizione ben specificata degli obiettivi del cambiamento; 
 Ø       strategie comportamentali e comunicative per la risoluzione del problema presentato;
 Ø       ridefinizione della situazione dopo i primi interventi.

PROBLEMI DI COMPORTAMENTO NELLA SCUOLA E MODELLI 
d ’INTERVENTO


Disturbo da deficit di attenzione e iperattività

       Secondo il DSM-VI-R, si manifesta con livelli, inappropriati per l’età di distraibilità, impulsività e iperattività. 
        Si manifesta per lo più a casa, a scuola e in situazioni sociali.
     ◊        Per alcuni il disturbo si manifesta in circostanze durante le quali è richiesta una maggiore concentrazione, come ascoltare l’insegnante o svolgere compiti.
     ◊        Disattenzione in classe: incapacità ad applicarsi ai compiti, sì da portarli a termine; difficoltà a organizzare e completare correttamente il lavoro o il compito.
        Incapacità di seguire le richieste e istruzioni e nel passaggio frequente da un’attività non completata ad un’altra. 
        L’alunno pare non ascoltare o non sentire ciò che gli viene detto,
      ◊        Coi coetanei la disattenzione è evidente nell’incapacità di seguire le regole dei giochi strutturati o stare ad ascoltare gli altri compagni.

        L’impulsività si manifesta con:
o         commenti fuori luogo;
o         risposte date prima che siano terminate le domande;
o         non riuscire ad aspettare il proprio turno nelle attività di gruppo;
o         non riuscire ad aspettare le istruzioni prima di cominciare qualche compito o interrompere l’insegnante durante le lezioni.                                    
       L’IPERATTIVITÀ consiste:
o         nell’incapacità di aspettare il proprio turno nei giochi;
o         nell’interrompere;
o         nell’afferrare gli oggetti;
      o         nell’impegnarsi in attività potenzialmente pericolose senza considerare le possibili conseguenze;
o         nella difficoltà a rimanere seduti;
      o         nell’eccessivo saltellare in giro, correre senza meta, attività molto rumorose;
MANIFESTAZIONI ASSOCIATE:
v       bassa stima di sé;
v       labilità dell’umore;
v       bassa tolleranza alla frustrazione;
v       esplosioni di collera;
v       insufficiente rendimento scolastico.


SOLUZIONI TENTATE
I vari tentativi per porre rimedio a tale problematica ricadono, sostanzialmente, in due grandi categorie:
  q       richieste indirette e dirette di cessazione o diminuzione del comportamento ritenuto problematico;
q       creazione del caso.
Le richieste dirette e indirette sono quelle con le quali si cerca di far cessare il comportamento disturbante dell’alunno richiamandolo e cercando di farlo rientrare attraverso spiegazioni.

N.B.                
 Con la constatazione dell’inefficacia dei richiami si passa ai rimproveri con l’aumento dell’attenzione verso l’alunno e tentativi di interventi miranti a coinvolgerlo in attività di lavoro e gioco come il proporre ruoli particolari nella classe pe tenerlo occupato.
CREAZIONE DEL VANTAGGIO SECONDARIO:
Col dedicarsi a tempo pieno all’allievo, si crea la probabilità che l’alunno stesso tragga dal proprio comportamento, un vantaggio: l’aiuto, il conforto, la cura che di essi hanno gli adulti soprattutto se si sono disinteressati di lui per parecchio tempo.

Tali ‘benefici secondari’ aumentano proprio dalle tentate soluzioni messe in atto – con le migliori intenzioni - dagli insegnanti.

CREAZIONE DEL CASO
Si interviene cercando di coinvolgere altri soggetti come i tecnici che, con la formulazione di classificazioni psicopatologiche, colloca entro l’individuo, piuttosto che nella struttura o nel contesto, la ragione del funzionamento o la colpa di ciò che accade.
DISTURBO OPPOSITIVO-PROVOCATORIO
Caratteristica essenziale è un comportamento diffidente, ostile e provocatorio.
Gli allievi risultano comunemente:
Ø       litigiosi verso gli adulti;
Ø       perdono spesso il controllo;
Ø       spesso arrabbiati, risentiti, infastiditi dagli altri;
Ø       sfidano l’adulto e le regole;
Ø       tendono ad incolpare gli altri per i loro errori o difficoltà.

                 CARATTERISTICA DEL DISTURBO:                    
gli allievi non si considerano provocatori e tanto meno oppositivi.


TENTATE SOLUZIONI:
Rivolte direttamente all’alunno che manifesta il disturbo ed è una chiara richiesta ad adeguarsi alle regole e al rispetto degli altri nonché alriconoscimento dell’autorità.
A volte le richieste dell’insegnante sono seguite da spiegazioni razionali sulla correttezza delle richieste e sulla necessità di rispettarle.
Tuttavia, l’allievo pare non ascoltare così l’insegnante tenta con richiami e rimproveri e, se non bastano nemmeno questi, si passa alla dichiarazione di proibizioni e, infine, alle punizioni.
Davanti ai comportamenti persistenti dell’alunno:
o         richiesta d’aiuto e di collaborazione da parte dei genitori, di altri colleghi, di tecnici;
L’INSEGNANTE SI SENTE SOLO NELL’AFFRONTARE IL PROBLEMA

MUTISMO ELETTIVO
CARATTERISTICHE:
Ø       Rifiuto persistente di parlare nel contesto scolastico o in altre principali situazioni sociali nonostante vi siano le abilità di comprensione del linguaggio parlato e scritto.
MANIFESTAZIONI ASSOCIATE
  •  eccessiva timidezza;
  •  isolamento e ritiro sociale;
  •  eccessivo attaccamento;
  •  rifiuto della scuola;
  •  tratti compulsivi o altri comportamenti oppositivi, specie a casa;
  •  insuccesso scolastico;
  •  <<prese in giro>> o scarico di colpe da parte dei coetanei.


TENTATE SOLUZIONI
         Tentativi di forzare qualcosa che non può essere forzato ma deve essere spontaneo: sollecitazioni continue a parlare e a comunicare.
          Cercare di capire il perché del silenzio, dei motivi e delle cause del comportamento.
          Aumento sconsiderato delle attenzioni verso l’alunno/a che manifesta il disturbo.
          Creazione del caso: colloqui con genitori, pedagogisti, psicologi, ecc. per meglio comprendere il fenomeno e diagnosticare.


CONFLITTO, OSTILITA’ E LITIGI FRA DUE (O PIU’) ALLIEVI

CARATTERISTICHE:
Due o più allievi che si fronteggiano, si scontrano, litigano spesso fra loro e creano tensioni e scompigli nel gruppo.
TENTATE SOLUZIONI:
q       Fare in modo che le parti coinvolte smettano di litigare;
q       Punizioni;
 q       Porsi come persona ragionevole con spiegazioni, per far comprendere la stoltezza dei comportamenti;
q       Tentativi di coinvolgerli in attività distraenti;
q       Tentativi di ignoramento.

IN CONCLUSIONE:
*      Il viaggio nell’universo scuola, nei suoi problemi e nelle possibilità d’intervento è stato per troppo tempo oggetto di disputeparrocchiali o divagazioni ideologiche-teoriche, ma ben poco oggetto
di studio per i tecnici della soluzione dei problemi.
*      L’intento di chi, come me, segue (per tali problematiche) la scuola del Prof. Nardone è di studiare tale contesto con l’obiettivo di mettere a punto tecniche e strumenti realmente operativi, senza credere di aver inventato nulla di nuovo né messo a punto una serie di modelli d’intervento che possano essere efficaci ed efficienti nei confronti di specifici problemi. 

*      <<Del resto, il limitato, ma funzionale compito di chi fa ricerca applicativa non è la costruzione di perfette impalcature teoriche, ma semplicemente il mettere a punto strategie che conducano l’operatore a raggiungere i suoi prefissati obiettivi>>. (G. Nardone)

E, come affermava Oscar Wilde “…il vero mistero non  è l’invisibile ma ciò che si vede”.