SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO GRATUITO

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SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO GRATUITO: Ascolto telefonico e telematico per prevenire/sostenere disagi psicologici Inoltre: prima consultazione in sede gratuita Mail: donatella.ghisu@yahoo.it /telefono: 392 5543431

D.ssa Donatella Ghisu

Psicologa, Counsellor Psicologico e Socio-educativo, Anali Transazionale, Specialista in Psicoterapia Breve Strategica, Psicopedagogista, Specialista in: Disturbi alcol correlati, Chil Abuse, Psicologia forense, Disturbi dell'Apprendimento e del Comportamento, Trainer EMDR. Mi occupo di coppie, adolescenti ed adulti a livello individuale e di gruppo. Sostegno alla genitorialità, agli insegnanti nonché alle aziende pubbliche e private.

venerdì 31 dicembre 2010

DONNE CHE AMANO TROPPO


L’amore, nelle sue diverse forme di attaccamento e nelle sue manifestazioni più positive e più sane, rappresenta una importante capacità e, al contempo, un naturale e profondo bisogno di ogni essere umano. Talvolta, tuttavia, la frustrazione o l’assenza di esperienze serene di questo sentimento umano, frequenti nell’attuale società ricca di rapporti instabili, possono generare un disconoscimento o una negazione di questo bisogno, che rappresenta invece un importante ingrediente di un sano sviluppo psicofisico e di una buona salute mentale e fisica nella vita adulta.
Quando un rapporto affettivo diventa un “legame che stringe” o, ancor peggio, “dolorosa ossessione” in cui si altera stabilmente quel necessario equilibrio tra il “dare” e il “ricevere”, l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria “dipendenza affettiva”, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona, ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali.
Qualcuno parla di "mal d'amore" altri di "intossicazione d'amore".
  • “Mal d’amore” è un termine generico che indica una sofferenza che può essere legata ad uno stato affettivo e di interesse verso un “oggetto d’amore” non disponibile o di cui non si conosce ancora la responsività o, infine, di cui non si conoscono alcune caratteristiche che sono alla base di fiducia, stabilità e serenità della vita affettiva. Di conseguenza è possibile che questo stato di malessere sia temporaneamente normale in seguito alla delusione del rifiuto e quindi alla notizia di una non reciprocità che si pone come una ferita narcisistica e come uno smacco all’autostima, ma esso può essere altrettanto consueto (ma non necessario) nella fase iniziale di una relazione, soprattutto in quella più accesa e più passionale dell’innamoramento, prima che il rapporto si stabilizzi intorno ad alcuni “punti sicuri”.
  • Quando si parla invece di “intossicazione d’amore” si fa riferimento ad una tendenza psicologica e comportamentale che può coincidere con la dipendenza affettiva: una condizione relazionale negativa che è caratterizzata da una assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva e nelle sue manifestazioni all’interno della coppia, che tende a stressare e a creare nei “donatori d’amore a senso unico” malessere psicologico o fisico piuttosto che benessere e serenità. Tale condizione, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere interrotta per ricercare un nuovo stato di serenità.
Qualora ciò risulti impossibile, si è soliti parlare di “dipendenza affettiva” o anche di “droga d’amore”.
** Quando l’amore è definito una “droga” si tratta di uno stato affettivo che in una coppia normale è destinato alla distruzione della relazione. Tuttavia esso si instaura in “coppie disfunzionali”, ossia in contesti relazionali-affettivi in cui in genere uno dei partner mostra segni di dipendenza verso l’altro e in cui si radica una tendenza ad alimentare questa forma di equilibrio paradossale della coppia fondato sul malessere. In alcuni casi la dipendenza è reciproca e ciò genera una costruzione a due del disagio che si radica in modo ancora più forte e che alimenta più facilmente le distorsioni cognitive che fanno pensare che alcuni comportamenti siano normali e dovuti all’altro.
Le principali caratteristiche della “love addiction”, che la connotano come una forma di “dipendenza sono essenzialmente tre.
  • La prima riguarda il piacere connesso alla droga d’amore, definito anche ebbrezza, ovvero la sensazione di euforia sperimentata in funzione delle reazioni manifestate dal partner rispetto ai propri comportamenti.
  • La seconda, la tolleranza, o dose, consta nel bisogno di aumentare la quantità di tempo da trascorrere in compagnia del partner, riducendo sempre di più il tempo autonomo proprio e dell’altro e i contatti con l’esterno della coppia, un comportamento che sembra alimentato dall’assenza della capacità di mantenere una “presenza interiorizzata” e quindi di rassicurarsi attraverso il pensiero dell’altro nella propria vita (Lerner, 1996). L’assenza della persona da cui si dipende porta pertanto ad uno stato di prostrazione e di disperazione che può essere interrotto solo dalla sua presenza tangibile.
  • Infine, l’incapacità a controllare il proprio comportamento, connessa alla perdita dell’Io ossia della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro, una riduzione di lucidità che crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta e una ricaduta, spesso più profonda che mai, nella dipendenza che fa sentire più imminenti di prima i propri bisogni legati all’altro.
L’amore dipendente, conseguentemente, si mostra con le seguenti caratteristiche:
  • è ossessivo e tende a lasciare sempre minori spazi personali;
  • è parassitario e basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato;
  • è caratterizzato dalla stagnazione e dall’autoassorbimento, ossia da una tendenza a ripiegarsi su se stesso e a chiudersi alle esperienze esterne per paura del cambiamento e necessita di mantenere fermi alcuni punti certi, soffocando qualsiasi desiderio o interesse personale in nome di un amore che occupa il primo posto nella propria vita.
Nella dipendenza affettiva esistono 2 elementi che caratterizzano la vita emotiva interiore :
  • un bisogno di sicurezza che fa da guida ad ogni comportamento;
  • una tendenza a disconoscere e a fare disconoscere all’altro i propri bisogni di ricevere amore, un’attitudine che sembra radicata in un’infanzia in cui ci si è abituati a limitare le proprie aspettative in conseguenza a delle esperienze relazionali precoci inappaganti e frustranti.
** Nella maggior parte dei casi tale tendenza si manifesta per lo più nelle donne rispetto agli uomini, a causa dell’esistenza di un diverso funzionamento psichico tra i due sessi e, in particolare, la presenza di una tendenza degli uomini a reagire diversamente ai traumi subiti rispetto alle donne.
Più precisamente, tra gli uomini è più comune la tendenza ad allontanare dalla mente il dolore delle violenze, carenze o prevaricazioni subite attraverso meccanismi di identificazione con l’attore di queste mancanze o aggressioni, un funzionamento che comporta l’assunzione del ruolo precedentemente subito o la manifestazione del bisogno di una “dipendenza”, che non è stata sperimentata positivamente nelle relazioni affettive, attraverso l’abuso di sostanze.
Nelle donne, invece, si tende generalmente a rivivere ciò che si è subito, riproducendo le carenze o le violenze, nel tentativo illusorio di controllarle e di riscattarsi dal passato (Miller D., 1994).
§ Tra le peculiarità della storia personale e familiare condivise da chi è coinvolto in un problema di “love addiction” ci sono:
  • la provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati, soprattutto nell’età evolutiva, i bisogni emotivi della persona;
  • una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto autentico che tendono ad essere compensate attraverso una identificazione con il partner, un tentativo di salvare lui/lei che in realtà coincide con un tentativo interiore di salvare se stessi;
  • una tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori che si è tentato a lungo di cambiare affettivamente, in modo da poter riprovare a ottenere un cambiamento nelle risposte affettive pressoché inesistenti ricevute nella propria vita;
  • l’assenza nell’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza che genera, nel contesto della co-dipendenza, un bisogno di controllare in modo ossessivo la relazione e il partner, che viene nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto dell’altro.
§§ Tutte le persone dipendenti affettivamente possono condividere, realmente o attraverso il proprio vissuto psicologico, tali realtà personali e familiari. Ciò che conta, infatti, è la percezione affettiva e il vissuto emotivo soggettivo conservato nella propria infanzia, anche se qualche volta questo non coincide con la presenza oggettiva di carenze e violenze e quindi con le attenzioni ricordate dai genitori delle persone che manifestano sintomi e conseguenze della dipendenza affettiva.
Pensieri e vissuti emotivi nella “dipendenza dall’amore”, sono connotati essenzialmente da:
  1. tendenza a sottovalutare la fatica connessa a ciò che serve ad aiutare la persona amata al punto da raggiungere, senza percepirlo in tempo, livelli elevati di stress psicofisico;
  2. terrore dell’abbandono che porta a fare cose anche precedentemente impensabili pur di evitare la fine della relazione;tendenza ad assumersi abitualmente la responsabilità e le colpe della vita di coppia;
  3. autostima estremamente bassa e una conseguente convinzione profonda di non meritare la felicità;
  4. tendenza a nutrirsi di fantasie legate a come potrebbe essere il proprio rapporto di coppia se il partner cambiasse, piuttosto che a basarsi su pensieri legati al rapporto attuale e reale;
  5. propensione a provare attrazione verso persone con problemi e contemporaneo disinteresse e apatia verso persone gentili, equilibrate, degne di fiducia, che invece suscitano noia.
*** Per la risoluzione delle dipendenze affettive è certamente indispensabile, l’ammissione dell'esistenza di un problema.
Di fatto esistono confini estremamente sottili tra ciò che in una coppia è normale e ciò che, nell’abitudine cronica, diviene dipendenza.
La difficoltà nell’individuazione del problema risiede anche nei modelli di amore che, come si è detto, una persona affettivamente dipendente conserva nella propria memoria e che fanno ritenere determinati abusi e sacrifici di sé (e nell'altro) come “normali” in nome dell’amore.
** Spesso, paradossalmente, è proprio la “speranza” che fa sopravvivere il problema e tende a cronicizzarlo: la speranza di un cambiamento impossibile, entro un contesto relazionale in cui i ruoli sono ormai consolidati, e pietrificati, ruoli e copioni da cui è, più o meno, impossibile uscire.
** Così, stranamente, l’inizio del cambiamento arriva quando si raggiunge il fondo e si sperimenta la disperazione, che rappresenta la possibilità di sotterrare le illusioni che hanno nutrito a lungo il rapporto patologico.
** Ci si può avvalere del supporto psicologico individuale, a volte può essere necessaria una psicoterapia, ma ciò che è certamente utile per velocizzare e stabilizzare i miglioramenti è il confronto in gruppo tra persone che vivono lo stesso problema perché ciò consente di prendere un impegno con gli altri, davanti agli altri e di cominciare a riconoscere le distorsioni della realtà, grazie alle somiglianze della propria vita con la vita altrui che consentono di vincere le difese che non permettono di vedere la verità sulla propria storia personale. Gli altri del gruppo diventano importanti specchi e insieme, si possono ritrovare la voglia, le motivazioni e le possibilità per uscire da relazioni tossiche e spesso anche molto pericolose che, in alcuni casi, sono le fondamenta della propria infelicità.

BIBLIOGRAFIA:
  • Guerreschi C., 2005, New addictions. Le nuove dipendenze, Edizioni San Paolo, Milano.
  • Miller D., 1994, Donne che si fanno male, Feltrinelli, Milano.
  • Norwood R., Donne che amano troppo, 1985, Feltrinelli, Milano.
  • Wright P.H., Wrigth K. D., 1990, Measuring codependents’ close relationships: a preliminary study. In Journal Subst Abuse, 2, 335-344.
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giovedì 30 dicembre 2010

IL RAPPORTO MADRE-BAMBINO BASE DEL PROCESSO DI CONOSCENZA


Fin dalla nascita ogni individuo è coinvolto in una relazione che rimanda emozioni. L’evoluzione affettiva e cognitiva è legata ai rapporti con le persone incontrate nel corso della vita. all’inizio della sua storia il bambino s’incontra col mondo attraverso la figura della madre ed è proprio da questo primo rapporto, molto esclusivo, che il suo mondo esterno si arricchisce gradualmente fino a comprendere altre figure di riferimento.
Lo stesso Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (D. Winnicott, 1974). Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé.
“Nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona” (H. Kohut, 1978).
Il punto di partenza per connettere l’esperienza soggettiva del bambino con l’altro e il mondo, è il senso del Sé ed essendo tale esperienza in continua evoluzione, visto che si organizza in relazione all’Altro, è importante che l’ambiente sia facilitante e sintonico affinché divenga una forma di organizzazione stabile pur nella sua evoluzione.
Nell’interazione con l’ambiente costituito quindi all’inizio sostanzialmente dalla madre, il bambino costruisce schemi di comportamento con l’altro che tenderà a riprodurre tutta la vita.
La madre compie fin dal primo momento di relazione col bambino una serie di gesti e attività che costituiscono una cornice entro cui il piccolo si sviluppa e che lo portano progressivamente ad emergere da quell’apparente stato di passività per acquistare un ruolo più attivo e più determinante per il procedere della relazione. 
Molti autori sostengono che già alla nascita ogni individuo possiede una predisposizione sociale innata che lo prepara ad avere rapporti con altre persone anche se egli non è ancora capace di relazioni sociali reciproche e non possiede ancora il concetto di persona.
È quindi evidente come le interazioni tra madre e bambino, nei primi anni di vita, sono possibili in quanto, immediatamente dopo la nascita, è già presente nel bambino una forma e una capacità di intersoggettività molto prima che il bambino sia capace di comunicazione verbale e di elaborazioni simboliche.
Si tratta di una forma di intersoggettività  primaria, come Trevarthen la definisce, una competenza le cui basi sono geneticamente determinate, che si esprime nel bambino in molti modi ed è testimoniata dalla capacità di imitazione precoce che ha il neonato (C. Trevarthen, 1997).
Allora il comportamento sociale del bambino sin dalle prime fasi è già organizzato e compito della madre è proprio quello di adattare il suo comportamento ad un’organizzazione comportamentale già esistente.
Un esempio di questo lo si può ritrovare nella madre che tiene in braccio e culla il piccolo durante l’allattamento: qui l’abbraccio della madre fornisce un contesto sociale stabile ove il bambino può abbandonarsi e sentirsi sicuro nei vari cicli e sperimentare così con sicurezza i ritmi di attività e paura legati a tale momento. In tal caso la madre funge da cuscinetto che protegge e fornisce struttura per la psiche emergente del bambino. Alcuni aspetti del comportamento della madre come la voce, il sorriso, gli occhi sempre disponibili divengono, infatti, punti fermi per permettere al bambino di conoscere l’ambiente che lo circonda e renderlo sempre più capace di esercitare un controllo su cicli che fino a quel momento erano inflessibili (fame-sonno).
Il comportamento materno col suo fluire continuo, col rispetto dei ritmi attività/pausa, con l’alternanza del turno nelle vocalizzazioni, fornisce al bambino la prima esperienza della struttura di base delle comunicazioni. È proprio attraverso questi dialoghi primari che il bambino imparerà le nozioni di reciprocità e di intenzionalità che stanno alla base del linguaggio e delle relazioni sociali vere e proprie.
Lo stesso D. Stern afferma che l’esperienza di essere con l’altro e di interagire con lui può costituire una delle più importanti esperienze della vita sociale. Ancora di più se il senso di essere con l’altro è considerato una modalità attiva di integrazione di due unità distinte –il Sé e l’altro- ove il bambino è parte integrante di una matrice sociale e ove gran parte della sua esperienza consegue alle azioni degli altri. Pertanto Stern ha evidenziato che il bambino è attivo nella relazione fin dalla nascita, rivelandosi in grado di stimolare interazioni, di parteciparvi e di rispondere (D. Stern, 1984). In altre parole, il neonato nasce competente e con un’innata predisposizione a fare esperienze affettive.
In tutto questo, l’altro (mare, caregiver) ha il delicato compito di fungere da Io ausiliario del bambino (D. Winnicott, 1987), di metà esterna del Sé (R. Spitz, 1973), di self-object (H. Kohut, 1982); è colui che deve aiutarlo ad ampliare e connettere le varie esperienze: da quelle sensoriali a quelle emozionali. Il caregiver deve, inoltre, fornire al bambino un ambiente di contenimento (holding environement) tale che, il bambino senta assicurata al propria continuità di essere e di esistere (D. Winnicott, 1970).
Molto importante sarà, a tale scopo, lo sviluppo delle qualità emozionali ed umane, l’empatia e, soprattutto, la competenza di sintonizzazione affettiva e di vicinanza emozionale che forniscono in maniera autentica e spontanea una base sicura (J. Bowlby, 1989) e un oggetto costante (M. Mahler, 1970).
Da quanto bene procede il primo anno di vita da un punto di vista affettivo, dipende l’evoluzione di tutta la vita psichica e relazionale futura. Se, infatti, la libera espressione del Sé e degli affetti incontra l’incomprensione, l’umiliazione, la disapprovazione o il rifiuto, il bambino imparerà molto presto a controllare le emozioni bloccando i muscoli espressivi dell’emozione negata (D. Stern, 1987).
Solo con un Vero Sé l’individuo avrà un senso di unità e interezza rendendo spontanei i suoi gesti, aperto il suo cuore, libere e personali le sue idee. Il vero Sé è fonte di autenticità, vivacità fisica e psichica ed è l’assicurazione della continuità del progetto vitale innato in ogni essere umano. Il vero Sé, quando è fatto crescere in una relazione genitoriale stimolante, rispettosa e protettiva, rende la persona veramente socievole, costante nelle relazioni, in sintonia col mondo.
Solo il vero Sé, dice Winnicott, può essere creativo e farci sentire reali. Infatti il vero Sé è il luogo della prima azione creativa del bambino che Winnicott chiama gesto spontaneo e può essere un sorriso, una vocalizzazione, un movimento del corpo: la cosa importante è che sorge dal bambino, dal suo nucleo emozionale. Egli non sta solo rispondendo o imitando il suo caregiver: sta, bensì, creando qualcosa di spontaneo e di assolutamente originale. Questo è l’inizio delle appercezioni creative e il compito del genitore è di guardare, gioire, incoraggiare ogni gesto spontaneo e creativo, guardandosi bene dal bloccarlo o dall’interferire col suo controllo o il suo giudizio o col modello di riferimento, visto che tutto dipende dalla qualità e quantità del suo sostegno affettivo. 

Questo significa anche che il bambino, libero dal dover strutturare e aderire ad un’immagine ideale si se stesso imposta dall’esterno, può vivere nel suo essere reale, spontaneo e creativo, facilitando così la possibilità di sviluppare la costanza dell’oggetto, dell’immagine reale del genitore il quale potrà a sua volta mostrarsi in tutti i suoi aspetti, senza essere idealizzato o accettato solo in parte dal bambino. In tal modo il bambino diverrà un adulto capace di vivere con creatività e spontaneità, amando la vita così come è stata affettivamente nutrita la sua vitalità e dando grande valore all’esistenza. Perché il vero Sé è la somma del Sé innato con le rappresentazioni dell’altro indotte dalle esperienze sensoriali vissute nella relazione con l’altro, con gli stati affettivi caldi ed empatici ad essa correlati.
Stern ha proposto l’esistenza di una capacità di sintonizzazione affettiva che rende possibile una forma di imitazione trans-modale e selettiva e che, questa capacità di sintonizzazione degli affetti, renda possibile la condivisione degli stati affettivi interni, ma è qualcosa che ovviamente va al di là del comportamento osservabile (D. Stern, 1989). Tutti gli psicologi evolutivi sottolineano che esiste un sistema molto efficiente di scambi emozionali che è essenzialmente non verbale; un sistema che rimane attivo, poi, per il resto di tutta l’esistenza e che rende possibile le comunicazioni affettive sentite intuitivamente e che nascono, appunto, nell’ambito delle relazioni basate sull’intimità.
L’evento chiave dell’infanzia sta proprio nello sviluppo di questa capacità di sperimentare, comunicare e regolare le emozioni le quali, all’inizio della vita, sono regolate dai partner adulti ma poi, nel corso dello sviluppo, diventano auto-regolate anche in rapporto allo sviluppo del sistema nervoso del bambino.
Appare pertanto evidente quanto una buona relazione sia fondamentale per creare una condizione psichica, per quanto possibile, felice. La relazione mentale non è un’astrazione ma un’operazione che avviene fra due o più persone. Infatti, gli avvenimenti psichici, le azioni di ogni persona sono, per così dire, sempre incompleti: essi si completano solo nell’interazione e al cospetto dell’altro a partire dall’ambiente familiare, con particolare rilevanza data alla diade madre-bambino, fino ad arrivare alla considerazione dell’ambiente sociale (D. Stern, 1987). Fondamentale è, a tale scopo, la qualità dell’interazione al fine di poterne stabilire le variabili condizionanti e affrontare le determinanti inconsce della relazionalità degli esseri umani nel gioco dell’evoluzione psichica di ogni persona.
Stern ritiene che, per una definizione qualitativa della relazione madre-bambino, si debba tener conto di diversi elementi: il primo di questi riguarda l’importanza del dare spazio in riferimento allo spazio interpersonale quale area definita dallo stesso autore di rispetto, che esiste attorno ad ogni essere umano, bambino o adulto che sia. Quest’area è, secondo Stern, predisposta geneticamente e gli strumenti affinché si realizzi sarebbero innati, ma dipenderebbe da un lavoro da svolgersi in comune. Molti studi hanno infatti evidenziato come, già i bambini piccoli, siano dotati di strumenti idonei a manifestare avversione nei confronti della violazione di questo spazio che la madre ha la possibilità di comprendere, anche se con le normali difficoltà della situazione, aiutata –peraltro- dal fatto che il bambino comunica con lei per mezzo di un codice che madre e bambino hanno in comune.
È rilevante perciò, in una buona relazione, la capacità della madre di raffigurarsi il bambino come entità mentale autonoma. Kohut ha descritto in modo articolato come, per lo sviluppo del Sé, sia indispensabile l’esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento; inoltre il comprendere l’altro in termini di stato mentale, permette di dare senso e anticipare le azioni (H. Kohut, 1982).
Psicoanalisti come Sandler, Emde, Stern, Fonagy e studiosi dell’attaccamento come Bowlby, hanno esplorato lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità meta cognitive a partire dalla qualità della relazione madre-bambino in riferimento ai fattori che rendono possibile il costituirsi di un attaccamento sicuro. Essi hanno sottolineato che il rafforzamento progressivo della funzione meta cognitiva corrisponde all’aumento della coerenza della propria narrativa personale e che, per far ciò, sia di fondamentale importanza una buona capacità di sintonizzazione emotiva (attunement) e la capacità di rispondere in modo sensibile e accurato (sensitive responsiveness), da parte del genitore, ai bisogni di vicinanza, protezione e contatto del bambino.
Attunement e sensitive responsiveness sono in correlazione con l’accuratezza della rappresentazione mentale del bambino, nella madre. A sua volta la madre riflette al bambino sia la sua comprensione del disagio sia la percezione corretta dello stato affettivo. Pertanto è necessario sottolineare l’importanza di un altro elemento al fine di una “buona relazione”: il compito della madre di dare contenimento.
Il compito della reverie, come afferma Bion, è fondamentale per unificare gli elementi che circolano attorno al bambino: è quella funzione materna attraverso la quale le proiezioni mortali prodotte dalle parti psicotiche del piccolo, sono bonificate e trasformate (W. Bion, 1972). Le diverse identificazioni proiettive, le angosce primitive trovano, con tale funzione, uno spazio, una mente capace di accoglierle e trasformarle sì da poter essere restituite depurate. Ovviamente tutto questo segue alla relazione con l’Altro-disponibile che possiede la capacità di accogliere, lasciar soggiornare, metabolizzare e restituire il prodotto dell’elaborazione permettendo al bambino di introiettare la tollerabilità alla frustrazione, la capacità di lutto, del tempo, del limite (W. Bion, 1972).
Tutto ciò passa attraverso il mentale che si attiva nella relazione col caregiver e, senza il quale, il processo di sviluppo della mente fallisce dando luogo a diverse patologie che non sono altro che vie di scarico e di evacuazione di angosce primitive non elaborate. La mente diviene così fonte di sofferenza che disturba il comportamento armonicamente funzionante della persona. Per contro, una mente che funziona è una mente che crea continuamente immagini (elementi alfa) dalle proto-emozioni e dalle proto-sensazioni: è una mente che metabolizza tutti gli apporti che riceve (W. Bion, 1972).
Una mente che non ha modalità assuntive-trasformative-creative, inverte il proprio funzionamento e evacua all’esterno contenuti non pensabili e contenibili nella mente. 

Chiaramente per una buona relazione è fondamentale avere una buona comunicazione nel senso di avere un linguaggio condiviso da entrambi i partners e di dare spazio alle diverse possibilità comunicative.
Tutto questo andrà a costituire quell’intersoggettività primaria nella quale la madre (ma anche il padre o il caregiver) si impegna tramite comunicazioni intuitive non consapevoli, fornendo una strutturazione della mente del bambino il quale, a sua volta, diviene consapevole di essere in grado, egli stesso, di intervenire nei proto-dialoghi con l’adulto che con il tempo, il corpo e le espressioni gestuali occupano un ruolo crescente nei loro rapporti. È un processo regolato reciprocamente durante il quale il bambino impara a mandare messaggi sociali specifici ai quali l’adulto deve rispondere.
In tal modo si crea il legame di attaccamento che avviene precocemente tra il bambino e la madre. Grazie a questo legame il bambino può fare riferimento ad una sorta di base sicura per esplorare l’ambiente e un rifugio che funga da punto di ritorno. Da questo punto riceverà indicazioni per muoversi nel mondo sociale e tanto più il legame è forte e sicuro maggiore sarà la possibilità di autonomia.
Ogni conoscenza, dunque, si origina da esperienze primitive di carattere emotivo; pertanto la relazione madre-bambino è la base del primo rapporto di comunicazione col mondo.
Nell’infanzia succedono al bambino molte cose buone e cattive che sfuggono al suo controllo per il fatto che nella prima infanzia la capacità di far rientrare queste nel proprio mondo psichico e, quindi, nella sua onnipotenza, è ancora in via di formazione. Winnicott sostiene che in questo periodo il sostegno dato all’Io prematuro dalla madre e dalla sua assistenza, permette al piccolo di vivere e svilupparsi anche se non è ancora in grado d’essere responsabile di ciò che di buono o cattivo c’è nell’ambiente.
Le cure materne date all’infante sono, per l’autore, fondamentali perché senza queste non può esserci infante. Di conseguenza la madre avrà la funzione di curare il bambino mediante l’empatia materna piuttosto che attraverso la comprensione di ciò che è o dovrebbe, essere appreso verbalmente. È il periodo dello sviluppo dell’Io il cui tratto principale è l’integrazione. Le cure materne si rivelano, allora, indispensabili anche per evitare che si sviluppi un Io malato, minimo o nel quale l’Id resta incompleto o quasi esterno all’Io, fino ad arrivare a forme di difesa psicotiche (D. Winnicott, 1970).
Egli parla, così, di madre sufficientemente buona la quale si preoccupa non solo di fornire cibo ma anche di soddisfare i bisogni di relazione. È il genitore quasi perfetto di cui parla Bettelheim, il genitore che commette errori perché non è infallibile ed è in grado di imparare dagli errori, riflettere e riparare, sapendo che il suo lavoro è destinato a molteplici frustrazioni.
Per Winnicott, infatti, l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.
L’ipersensibilità materna primaria, di cui riferisce Winnicott, è quella sorta di preoccupazione sana della madre che nutre lo sviluppo della mente del suo bambino.
La good enough mother, come l’autore la definisce, è quella madre che sa concedersi di regredire, di diventare piccola, piccola come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni.
È proprio tale sensibilità materna che andrebbe, secondo molti autori, a nutrire la mente dei bambini. Appare allora evidente, in tale contesto, che lo sviluppo di una mente che pensa, di una mente che è, perciò, capace di cogliere e sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo, ha inevitabilmente bisogno di una mente emozionale capace di sentire le esperienze della vita intorno a sé e di godere del piacere di un ambiente a lei esterno.
Nel bambino in età precoce, ma non solo, lo sviluppo di una mente emozionale è fondamentale per lo sviluppo di una mente capace di pensare. Da ciò si evince che molte forme di ritardo cognitivo o di difficoltà di apprendimento presenti nei bambini, potrebbero essere “curate” meglio se fosse presente -o di sviluppare qualora non fosse presente- la capacità materna di prendersi cura dei bisogni emozionali dei figli.
Una madre in grado di godere delle gioie dell’allattamento, di comunicare con amore al suo bambino mentre si prende cura di lui, che lo guarda in modo particolare, è una madre che sta creando le basi affinché avvenga lo sviluppo della “mente emozionale” che garantisce lo sviluppo di una “mente cognitiva”.
Winnicott, al pari di Bion, afferma che una madre sufficientemente buona permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.
Appare evidente, allora, che un bambino che ha avuto un attaccamento sicuro e che nutre fiducia nella disponibilità e nell’appoggio dell’adulto, esprime i propri sentimenti, positivi e negativi. Sarà, altresì, un bambino che saprà separarsi per un tempo sempre più lungo al fine di esplorare l’ambiente, accrescendo in tal modo le sue conoscenze e le sue sicurezze in una realtà oggettiva condivisa senza esserne traumatizzato ma permettendo l’espressione della sua originalità e della sua passione.

Donatella Ghisu
Psicologa
Psicopedagogista
Counsellor psicologico e socio-educativo,
Psicologa forense, Insegnante
 
BIBLIOGRAFIA:
Bettelheim B., Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, 2002
Bion W., Apprendere dall’esperienza, A. Armando, 1972
Bowlby J.,  Una base sicura, R. Cortina, 1989
Bowlby J.,  Attaccamento e perdita, vol. 1°: L’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino, 1972
Bowlby J.,  Attaccamento e perdita, Vol. 2°: La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1975
Bowlby J.,  Attaccamento e perdita, vol. 3°: La perdita della madre, Boringhieri, Torino, 1983
Emde R.N., Sameroff A.J., Relationship disturbances in early childhood, Basic Book, New York, 1989
Fonagy P., Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento, Cortina, 2002
Fonagy P., Psicopatologia evolutiva, Cortina, 2005
Fonagy P., Gergely G., Target M., Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del Sé, Cortina, 2005
Fonagy P., Target M., Attaccamento e funzione riflessiva, Cortina, 2001
Kohut H., Narcisismo e analisi del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1976
Kohut H.,  La ricerca del Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 1982
Mahler M., La nascita psicologica del bambino, Bollati Boringhieri, 1970
Sandler J., L’analisi delle difese, Bollati Boringhieri, 1990
Stern D.N., Le prime relazioni sociali: il bambino e la madre, Sovera Multimedia, Roma, 1989
Stern D.N., Le interazioni madre-bambino, Cortina, 1998
Stern D.N., Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino, 1987
Treverthen C. Empatia e biologia, R. Cortina, 1997
Winnicott D. W., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, A. Armando, Roma, 1968
Winnicott D. W.,  Sviluppo affettivo e ambiente, A. Armando, Roma, 1970

© PSYCHOMEDIA - Donatella Ghisu - Il rapporto madre-bambino base del processo di conoscenza


martedì 28 dicembre 2010

TEORIA DELLA MENTE E RELAZIONI FAMILIARI. Ovvero: come si impara a comprendere gli stati emotivi altrui. (PRIMA PARTE)


Possedere una teoria della mente significa essere in grado di attribuire stati mentali, intesi come credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio e l’altrui comportamento (Sempio et al., 2005). Si tratta di un’abilità che ognuno di noi utilizza nella vita quotidiana nel contatto con gli altri: essa, infatti, viene anche definita come folk psychology o psicologia del senso comune.
La teoria della mente ha molteplici funzioni. Una prima funzione è quella sociale, infatti la capacità di compiere complesse attribuzioni di stati mentali permette di spiegare, di predire e di agire sul comportamento proprio e altrui (More, Frye, 1991). Da qui è possibile considerare due ulteriori specificazioni della funzione sociale della teoria della mente. Da un lato l’abilità di mentalizzazione permette di dare un senso al comportamento interpersonale (Astington, 2003; Baron-Cohen, 1995). Dall’altro, possedere una teoria della mente permette di essere partner comunicativi competenti, cioè di poter dare un senso alla comunicazione, dal momento che comprendere il messaggio comunicato significa cogliere l’intento comunicativo della persona. Sulla base di queste affermazioni, è possibile fare una distinzione tra una teoria della mente “fredda”, adoperata con fini manipolatori e antisociali, e una teoria della mente “calda”, con finalità prosociali. In particolare, si può notare come l’uso dell’abilità di mentalizzazione è completamente differente quando l’inferenza degli stati mentali altrui porta a una loro manipolazione in funzione dei propri obiettivi, come nel caso dell’inganno (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999) o quando, al contrario, l’interpretazione dei sentimenti e delle emozioni altrui conduce a una maggiore vicinanza psicologica nei riguardi dell’altro, come nel caso dell’empatia (McIlwan, 2003) o della comunicazione degli affetti nella comunicazione precoce madre-bambino (Riva Crugnola, 1999). Inoltre, il possesso della teoria della mente riveste una cruciale funzione adattiva per il bambino (Fonagy, Target, 2001): infatti, a partire dall’attribuzione di stati mentali ad altri il bambino, oltre a conferire un senso al comportamento altrui, lo rende anche prevedibile. Tutto ciò consente al bambino di mettere in atto delle condotte flessibili.
Fonagy (2001) sostiene che il bambino, sulla base di esperienze precedenti di interazione con l’altro, crea una molteplicità di modelli rappresentazionali di Sé e dell’altro, che gli consentono di utilizzare in maniera adattiva il comportamento più appropriato alla situazione. L’abilità di mentalizzazione permette anche di sviluppare la consapevolezza e la riflessione su di sé (Howilin, Baron-Cohen, Hadwin, 1999). Il bambino diventa in grado di riflettere sui propri processi mentali, di comprendere le origini o le determinanti del suo comportamento, la fallibilità delle proprie credenze e la fonte delle proprie conoscenze. Secondo Fonagy (2001), la teoria della mente, oltre alla funzione adattiva, ha anche una funzione protettiva per soggetti con percorsi evolutivi critici o difficili. Ad esempio, nel caso del bambino abusato, l’abilità di mentalizzazione può portare il bambino a distinguere il proprio Sé dall’altro (Fonagy et al., 1994).
Un punto fermo, su cui ormai la quasi totalità degli studiosi concorda, è che tale abilità non è posseduta dal bambino sin dalla nascita, ma si sviluppa nel tempo. Wimmer e Perner (1995) hanno eaborato un paradigma sperimentale, il compito della falsa credenza, che permette di valutare le abilità di teoria della mente nei bambini. Il compito si basa sul “trasferimento inaspettato” di un oggetto da un posto all’altro all’interno del seguente scenario: un primo personaggio mette l’oggetto che tiene in mano, ad esempio una biglia, in un contenitore x e poi se ne va; in sua assenza un secondo personaggio sposta l’oggetto dal contenitore x al contenitore y; quindi il primo personaggio rientra in scena e dichiara che andrà a prendere la sua biglia. A questo punto si chiede al bambino dove il personaggio in questione cercherà la biglia. La risposta corretta, ovvero che la cercherà dove l’ha lasciata, nel contenitore x, corrisponde al riconoscimento della falsa credenza. Per rispondere in questo modo il bambino deve rendersi conto che il protagonista della storia possiede una rappresentazione della realtà diversa dalla rappresentazione dello stato di cose effettivo (che corrisponde in questo caso alla rappresentazione del bambino); egli deve inoltre prevedere che il comportamento del protagonista sarà determinato dalla sua credenza piuttosto che dallo stato di cose effettivo, ovvero cercherà la biglia dove crede che sia e non dove si trova realmente. Gli esperimenti condotti da Wimmer e Perner (1995) dimostrano che a partire dai quattro anni possiamo attribuire al bambino il possesso della teoria della mente, in quanto è in grado di risolvere il compito della falsa credenza; mentre a due o tre anni di età i bambini ritengono erroneamente che il personaggio andrà a cercare la biglia nel contenitore dove si trova attualmente, dimostrando così di non saper attribuire agli altri conoscenze e credenze diverse dalle proprie.


Howilin P., Baron-Cohen S., Hadwin J., (1999)Teoria della mente e autismo. Insegnare a comprendere gli stati psichici dell’altro - Erikson, Trento, 2000.
McIlwan D., (2003)Bypassing empathy. A machiavellian theory of mind and sneaky power, in Repacholi B., Slaughter V., (a cura di), Individual Differences in Theory of Mind. Implication for Typical and Atypical Development - Psychology Press, New York.
Moore C., Frye D. (1991)The acquisition and utilità of theory of mind, in Frye D., Moore C., (a cura di), Children’s Theories of Mind - Erlbaum, Hillsdale.
Astington J.W. (2003)Sometimes necessary, never sufficient: false bilief understanding and social competence, in Repacholi B., Slaughter V., (a cura di), Individual Differences in Theory of Mind. Implication for Typical and Atypical Development, Psychology Press, New York.
Baron-Cohen S. (1995)L’autismo e la lettura della mente - Astrolabio, Roma.
Fonagy P., Target M., (2001)Attaccamento e funzione riflessiva - Tr. It. Raffaello Cortina, Milano.
Riva Crugnola C. (1999) (a cura di) - La comunicazione affettiva fra il bambino e i suoi partner - Raffaello Cortina, Milano.
Sempio L., Marchetti A., Leccio F. (2005)Teoria della mente. Tra normalità e patologia - Raffaello Cortina Editore.
Wimmer H., Perner J. (1995)Credenze su credenze: rappresentazione e funzione di vincolo delle false credenze nella comprensione dell’inganno dei bambini, tr. It. In Liverta Sempio O.L., Marchetti A., Lecciso F. (1995), Teoria della mente. Tra normalità e patologia - Cortina Editore, Milano.

domenica 19 dicembre 2010

GENITORI e FIGLI

I rapporti tra genitori e figli rappresentano da sempre una questione delicata e difficile, talvolta un vero e proprio problema, che si accentua durante l'adolescenza.
È difficile comunicare e comprendersi per via della differenza di età: i figli sostengono che i genitori appartengono a una generazione precedente e hanno una mentalità e una concezione della vita arretrata di 25-35 anni rispetto alla loro. I genitori considerano invece tale differenza di età come positiva, come esperienza in più che ai figli manca.
È difficile comprendersi anche per la differenza di ruolo: i genitori si sentono responsabili dei figli e vorrebbero, spesso in buona fede, indirizzarli per il meglio nella vita, ma talvolta ciò si traduce in imposizione, in autoritarismo, e produce solo conflitti. I figli dal canto loro, man mano che crescono, desiderano (e meritano) più autonomia ma talvolta esagerano e sono inconsapevoli dei rischi cui vanno incontro.
È passato il tempo in cui i genitori potevano plasmare e controllare i figli a loro piacimento, ma non è ancora venuto (né mai verrà) il tempo in cui i figli possano fare a meno della guida e dei consigli dei genitori.
Il punto oggi è di rispettare e conciliare in modo costruttivo e democratico le esigenze e le capacità di entrambi: i genitori devono imparare a rispettare le crescenti esigenze di libertà dei figli fin dall'infanzia, senza aspettare la ribellione adolescenziale, dando loro fiducia e insegnandogli a scegliere da soli con libertà (libertà di scegliere la propria strada e anche la libertà di sbagliare, almeno entro certi limiti). I figli dal canto loro devono rispettare il senso di responsabilità dei genitori, le loro ansie e preoccupazioni e anche apprezzarne la maggiore esperienza.
Tutto ciò non si ottiene con prescrizioni morali, con obblighi o indottrinamenti ma con un dialogo franco e aperto che permetta ad entrambi di esprimere le proprie esigenze, emozioni e idee senza sentirsi giudicati.
A tal fine è indispensabile che il genitore per primo si spogli del ruolo e delle maschere di padre o madre e affronti il figlio in modo più spontaneo e alla pari.
Il problema è che nessuno ha insegnato ai genitori a essere buoni genitori e tantomeno come fare per impostare in modo chiaro e costruttivo i rapporti con i figli. Ogni genitore è fondamentalmente un autodidatta, e applica in buona parte le regole e i modelli che ha a sua volta imparato dai propri genitori. Regole e modelli spesso superati e comunque certamente migliorabili.
Al giorno d’oggi esistono per fortuna numerosi libri di grande utilità e comprensibili a tutti ed è anche possibile partecipare a corsi per genitori dove si può imparare a capire meglio la psicologia dei figli, le tappe della loro crescita, i metodi educativi e le modalità per costruire con loro un rapporto e un dialogo positivo e appagante per entrambi.
Infine, per tutti quei casi in cui i rapporti genitori-figli sono già deteriorati, è possibile oggi ricorrere all’aiuto di un esperto - un counsellor, uno psicologo - che faciliti la risoluzione del conflitto e permetta il ricrearsi di una relazione più armonica tra persone che fondamentalmente si amano ma che purtroppo non riescono a comprendersi.
“I tuoi genitori hanno fatto il meglio che potevano.
Tu come genitore hai fatto il meglio che potevi.
Se vuoi, ora puoi usare questi nuovi strumenti;
non è mai troppo tardi per cominciare”
(J. Clarke, 1978) 
Quante volte abbiamo confrontato i nostri genitori con quelli dei nostri amici pensando che i nostri fossero più rigidi, più noiosi e comunque meno vicini ai nostri problemi? E quante volte ci siamo detti che è inutile parlare con loro perché tanto non ci capiscono ed è tutto tempo perso?
Proviamo a considerare questi aspetti rovesciando il punto di vista. Per riuscire a comprendere gli altri a volte è utile mettersi nei loro panni.
Quando due adulti diventano genitori, non diventano automaticamente consapevoli di tutte le responsabilità che questo comporta. Sicuramente si predispongono per essere accoglienti e per provvedere ai bisogni del loro figlio, ma, a volte, nonostante le buone intenzioni, non riescono a trovare il modo migliore per stare vicino ai propri figli. Ad esempio, di fronte ad un figlio adolescente molti genitori si comportano come se avessero ancora a che fare con un bambino di tre anni. Infatti quando eravamo piccoli avevamo bisogno del totale accudimento da parte dei nostri genitori, crescendo poi abbiamo avuto altri bisogni da soddisfare, tipo essere compresi, essere rispettati per il nostro modo di pensare, avere spazio nelle decisioni della famiglia. Tutto ciò, a volte, può produrre dei conflitti, poiché nel passaggio dall'infanzia alla pubertà è necessario che il comportamento dei nostri genitori si modifichi, passando da un comportamento che prevede la gestione del bambino sotto tutti i punti di vista, ad uno stile meno autoritario, più corresponsabile e paritario. Alcuni genitori fanno sicuramente del loro meglio, ma non è sempre così facile cambiare. Ciò, come abbiamo detto, può far emergere conflittualità e situazioni di tensione. Queste possono essere affrontate e gestite in modo costruttivo, senza cioè negarne l’esistenza, ma anzi considerandole salutari e stimolanti, poiché mantengono vivo il confronto e il ruolo di ciascuno. Se, ad esempio, un figlio non si ribella ad un padre autoritario non riuscirà poi nella vita a farsi ascoltare o ad affermare il proprio punto di vista. Come dice Gordon il punto critico è come viene risolto il conflitto e non la quantità di conflitti che si possono creare. I nostri genitori a volte sono spaventati del cambiamento che avviene in noi figli e spesso tendono a spostare il problema affermando che con l’adolescenza non riescono più ad andare d’accordo con noi come prima. In realtà i conflitti familiari dovrebbero essere visti come una preparazione necessaria alla vita, poiché, vivendoli e imparando quindi a gestirli, possiamo essere più preparati ad affrontare quei conflitti che inevitabilmente si produrranno in futuro nella nostra vita di coppia, sul lavoro e nei molti altri ambiti della vita sociale. Purtroppo nessuno ha mai insegnato ai nostri genitori a gestire i conflitti e ad essere consapevoli dei sentimenti che scatenano; molti, pertanto, nella maggior parte dei casi, riproducono meccanicamente i modelli appresi nelle loro famiglie d’origine - modelli vecchi e spesso poco efficaci.
Gran parte dei genitori si pone molte domande circa il loro ruolo, domande che toccano diversi temi oltre quello del conflitto generazionale, tra cui: come trasmettere sicurezza, valori, come affrontare i disagi degli adolescenti riguardo alla propria identità, alla sessualità, alla droga, ecc. Queste domande generano il bisogno di avere più informazioni riguardo a ciò che accade quando cresciamo e di condividere con altri i propri timori. Alcuni genitori si chiedono se sono sufficientemente competenti, altri cercano di proteggere i figli impedendogli alcune esperienze che comportano, sì, dei rischi ma che sono anche molto formative per lo sviluppo e la crescita, altri ancora aggirano i conflitti lasciando i figli in balìa di se stessi. In ogni caso i genitori cercano di stabilire un contatto, un punto di incontro, anche se spesso non trovano i tempi giusti, le parole giuste o lo stato d’animo migliore per incontrarci. Questi sono problemi comuni che si presentano nelle famiglie quando i figli crescono, e spesso all’origine di queste incomprensioni ci sono difficoltà di tipo comunicativo: ognuno è chiuso nel proprio punto di vista e, invece di tentare di incontrare l’altro, si barrica, per paura, in posizioni difensive.
Bruno Bettelheim sostiene che se i genitori ripercorressero i passaggi che li hanno portati dall'infanzia all'età adulta, potrebbero riuscire a comprendere meglio le esperienze dei loro figli e scoprirne il significato. La conoscenza così raggiunta modificherebbe l'influsso stesso di quegli eventi sulla loro personalità e di conseguenza cambierebbe anche il modo di vedere l’esperienza dei figli. In sostanza, approfondendo la conoscenza di se stessi, i genitori acquisirebbero una maggiore conoscenza dei propri figli. Per riuscire a fare questo è importante che i genitori inizino a condividere tra loro le difficoltà e i problemi che emergono nella relazione con i figli. Da alcuni anni a questa parte sono nati a questo scopo corsi e seminari per genitori, non solo per fornire informazioni utili e corrette, ma soprattutto per offrire uno spazio di condivisione e rielaborazione di esperienze, vissuti e pratiche educative, favorendo un maggior contatto con se stessi e con il proprio modo personale e creativo di essere genitori.

Quante volte nella nostra esperienza di genitori ci siamo chiesti come si fa ad educare bene i nostri figli? Perché nessuno ci ha mai insegnato cosa significa essere padre e madre e quante responsabilità, ansie e timori questo comporta?
Fino ad oggi si é imparato ad essere genitori in modo un po’ improvvisato, ricalcando schemi appresi nella famiglia di origine, affidandosi spesso al buon senso ed ai suggerimenti di persone per noi significative (pediatra, genitori, amici con figli…).
A causa di questa impreparazione, capita che ci disponiamo di fronte a nostro figlio o figlia pensando di conoscere i suoi bisogni ed interpretare i suoi desideri, mentre in realtà facciamo questo senza esserci predisposti prima ad un ascolto reale e profondo delle sue richieste. In questo modo si producono effetti negativi involontari che possono essere evitati con una maggiore consapevolezza del proprio ruolo.
Quante volte ci capita, ad esempio, di rientrare a casa stanchi da una giornata di lavoro e nostro figlio ci richiede una carica di energia spropositata? E come ci sentiamo se subito non ci mettiamo a giocare con lui?
Invece di sentirci in colpa e quindi giocare con nostro figlio in modo poco coinvolgente, sarebbe forse meglio comunicare la propria stanchezza e trovare un altro momento da dedicare al gioco.
Il passaggio da adulto a genitore non azzera i bisogni, i desideri e le paure che sono parte dell'essere umano, ed imparare ad ascoltare i propri bisogni e a condividere le esperienze con altri genitori, può aiutare a non sentirsi soli nell'affrontare i problemi.
Fare il genitore è un compito difficile, perché adulti e bambini sono diversi, e la crescita dei figli richiede un continuo cambiamento da parte dei genitori, alla ricerca di nuovi modi di rapportarsi con loro. Nella società di oggi tutto questo appare più difficile a causa dei cambiamenti che sono avvenuti nella struttura familiare, che non permettono più di attingere ai modelli del passato. I modelli che oggi presentano i mass-media non corrispondono alla realtà, poiché propongono un modello ideale di genitore perfetto che dovrebbe essere sempre in grado di comprendere tutti i bisogni dei figli, che sa dare libertà, ma al tempo stesso vigila e dà limiti, che sa essere comprensivo e presente ma non invadente. Una buona educazione dei figli non corrisponde all'assunzione di comportamenti perfetti, la perfezione non è dell’essere umano ed accanirsi a raggiungerla impedisce di avere un atteggiamento di benevolenza e tolleranza verso le imperfezioni altrui. Lo sforzo e la fatica di capire i propri figli sono sufficienti per essere genitori accettabili e questo è alla portata di tutti. Gli errori che si commettono, a volte dovuti proprio all'intensità del coinvolgimento, possono diventare un’occasione di confronto ed un nuovo punto di partenza nella relazione con i figli.
Oggi molti genitori si pongono domande su come stare meglio con i propri figli, e proprio per questo sono nati spazi in cui i genitori stessi possono incontrarsi, anche con la presenza di esperti, per condividere le loro preoccupazioni. Esistono anche corsi e seminari che possono aiutare a trovare il modo appropriato per comunicare e rapportarsi con i figli.
A questo proposito sono utili alcune indicazioni su come siano necessarie alcune condizioni perché la capacità di comunicare funzioni nella duplice veste di espressione e di ascolto.
Come genitori nei confronti dei figli dovremmo:
- dedicare più tempo al dialogo, convinti che i figli valgono più di tante altre cose, carriera compresa;
- dare fiducia circa la possibilità di risolvere da soli i loro problemi, evitando di sostituirci a loro o, al contrario, di stressarli con una presenza invadente asfissiante, possessiva;
- non temere i loro sentimenti negativi, ma viverli come transitori: l’odio può trasformarsi in amore, la rabbia in serenità, lo scoraggiamento in speranza;
- “sentire” di aiutarli in quel preciso momento, su quel tipo di problema che ci stanno ponendo. É di gran lunga preferibile, se non siamo nelle condizioni per farlo, sottolineare l’importanza dell’argomento (o della richiesta, o della proposta), ma rimandarne la trattazione, purché in tempi ravvicinati (e ricordarsene poi…);
- saper accettare i loro stati d’animo, per quanto diversi da sentimenti e desideri che gradiremmo trovare;
- ripetere a noi stessi che ciascuno di loro è altro da noi, con pieno diritto ad una propria identità, ad una propria vita, superando tentazioni di figlio “mostra”, da esibire in pubblico, pavoneggiandosi o di figlio “fotocopia”, che a volte ci piacerebbe tanto avere;
- non illuderci che tutto si compia realizzando un ascolto, anche se attivo, ma seguire una strategia globale che comprenda una costruttiva e feconda progettualità;
- convincerci che i figli non sono “comportamenti da cambiare”, ma anzitutto persone da accettare;
- rivisitarci, ponendo attenzione ad alcuni nostri modi di essere e di agire.
Copyright © Dott.ssa Donatella Ghisu

lunedì 13 dicembre 2010

SESSUALITA' E CORPOREITA'



La sessualità è una delle sfere più importanti e delicate dell'esistenza umana e per essere vissuta bene richiede naturalezza, spontaneità e consapevolezza delle proprie emozioni.
Tuttavia, anche se la vita sessuale delle persone è oggi molto più libera e appagante che in passato, sono ancora molti i fraintendimenti, i dubbi, le incertezze a riguardo, e c'è un grande bisogno di corretta informazione.
La maggior parte dei giovani apprende i segreti del sesso attraverso il passa parola tra coetanei e le esperienze autodidatte, perché ancora oggi non esistono enti, centri o corsi scolastici che facciano una vera educazione sessuale. Ciò comporta numerose conseguenze negative, tra cui le ancora molte gravidanze indesiderate, l'emarginazione dell'omosessualità e varie forme di perversioni.
In una società come la nostra, che ancora risente di distorsioni e repressioni secolari, non è sempre facile vivere la sessualità in modo appagante e molte sono le persone che hanno problemi più o meno seri a riguardo, di origine fisiologica, psicologica o derivanti dall'aver subito abusi o violenze sessuali. Spesso queste persone si vergognano dei loro problemi e se li tengono per sé o tutt'al più li confidano ad un amico, che quasi mai è in grado di fornire risposte adeguate. Invece è bene sapere che, se opportunamente affrontate, molte di queste difficoltà si possono risolvere, leggendo i libri giusti, partecipando a corsi e seminari o rivolgendosi ad uno specialista, sessuologo o psicologo.
Un buon rapporto con la sessualità inizia dalla conoscenza del proprio corpo e subito dopo dalla conoscenza dei propri sentimenti ed emozioni. Contrariamente a quanto certa cattiva cultura vorrebbe farci credere, la sessualità non è mai separabile dai sentimenti e dalle emozioni, specie all'interno di rapporti non occasionali, e si raggiunge il massimo appagamento quando si congiungono non solo i corpi ma anche le menti e i cuori. Infatti sempre più persone ricercano nella relazione sessuale una opportunità di unione, di incontro dell'anima, insomma di spiritualità, intesa non necessariamente come "religione" ma più spesso come sentimento intimo, privato di comunione con l'altro. A riguardo si possono trovare oggi molti libri e anche corsi e seminari su come vivere spiritualmente la sessualità.
Copyright © Dott.ssa Donatella Ghisu

venerdì 10 dicembre 2010

EMDR: Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari)

I problemi clinici a cui viene in genere applicato l'EMDR dagli psicoterapeuti specializzati in EMDR sono: ansia, attacchi di panico, traumi infantili e traumi in età adulta, abuso sessuale, disturbi ossessivi e alimentari.

La terapia EMDR è nata inizialmente per il trattamento dei traumi, sia nei bambini che negli adulti: incidenti stradali, calamità naturali, atti terroristici, aggressioni, stupri, abusi infantili, lutti improvvisi. Nasce inoltre come trattamento di accellenza per la cura dello stress e dell'ansia.

Negli ultimi vent'anni l’EMDR si è affermata come trattamento non solo per il disturbo post traumatico da stress, dove sono stati evidenziati i suoi effetti positivi sul  funzionamento del Sistema Nervoso Centrale, ma anche per altri disturbi, originati dallo stress, che si trasformano in  disturbi fisici (batticuore, tremito, stato di eccitazione nervosa, mal di testa, disturbi alimentari, disturbi dell’apparato genitale, ecc).

Gli obiettivi terapeutici vengono raggiunti rapidamente, con cambiamenti visibili che si mantengono nel tempo. In particolare nei casi di traumi l'EMDR riduce molto velocemente i sintomi intrusivi più dolorosi e faticosi da sopportare per la persona, come per esempio il terrore di guidare dopo un grave incidente d'auto.

EMDR  è un acronimo per Eye Movement Desensitization and Reprocessing (Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari). E’ una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione ritmica destro/sinistra per trattare disturbi legati direttamente a esperienze passate e a disagi presenti. La stimolazione fisiologica sembra attivare il sistema innato di elaborazione dell’informazione e sembra altresì legato ai meccanismi inerenti l’immagazzinamento della memoria.

Il metodo EMDR può accelerare il trattamento di molte patologie e dei problemi di autostima legati ad eventi traumatici passati e a presenti condizioni di vita. Ci sono più studi controllati sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma.  EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente.

Dopo le varie fasi di una seduta di EMDR, i ricordi disturbanti precedenti hanno un’alterazione.  L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi in genere si attutiscono o spariscono, le cognizioni del paziente diventano più adattive dal punto di vista terapeutico e le emozioni e sensazioni fisiche si riducono in intensità. Si sente che veramente il ricordo della esperienza traumatica fa parte del passato. Altri effetti positivi sono molto comuni, come un miglioramento nella prestazione, nell’atteggiamento, nello stato dell’umore e l’auto valutazione.

Uno degli studi più rigorosi dal punto di vista scientifico (Wilson, Bechker, Tinker) pubblicato  nel Journal of Consulting and Clinical Psychology (1995, Vol. 63, N° 6, 928-937) ha analizzato 80 soggetti che presentavano disturbi derivanti da un’ampia gamma di traumi (abuso fisico e psicologico, morte di una persona cara, violenza e molestie sessuali,  malattie, fobie e trauma da combattimento). Sono stati assegnati in modo random al gruppo che riceveva il trattamento EMDR o al gruppo di controllo. L’efficacia dell’EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per quelli con Disturbo Post Traumatico da Stress  (il 46%) che per quelli che non avevano tutti i requisiti per questa categoria diagnostica. Gli effetti sono stati mantenuti nel follow up a 90 giorni.

Incidenti, catastrofi ed altre esperienze traumatiche hanno il potere di sconvolgere la mente dei sopravvissuti, producendo sintomi psicologici, psichiatrici e fisici specifici che compromettono gravemente la capacità di avere relazioni sociali soddisfacenti, di lavorare, di vivere. Queste persone, anche dopo che è trascorso molto tempo dall’evento traumatico, mantengono una sindrome di tipo post traumatico che può permanere anche a distanza di anni. La sindrome post traumatica produce  i seguenti effetti che non erano presenti prima del trauma: allucinazioni,  insonnia,  incubi , attacchi di panico, ansia, iper-vigilanza, batticuore, tremito, stato di eccitazione nervosa, momenti dissociativi, disturbi alimentari, sensazioni di estraniamento dal mondo e depressione.La possibilità che si instauri il disturbo è legata alla gravità dell’evento, al fatto di viverlo  come evento minaccioso per la vita, associato a paura di morte o di perdita della propria integrità fisica, alla sensazione di assoluta impotenza vittima, all’accoglienza che la vittima riceve dalle altre persone.

Mente e corpo nella cura dello stress
Sovente, persone che soffrono per lo stress, l’ansia o gli attacchi di panico sono più propense a cercare un aiuto nella medicina e solo dopo diversi riscontri dai medici, e magari alcuni tentativi di ricovero ospedaliero, si rassegnano a malincuore a recarsi dallo psicologo. E’ difficile pensare che la mente in qualche modo soffra e mandi dei segnali che producono effetti fisici quali il batticuore, capogiri, mal di stomaco o di pancia, senso di allarme diffuso.

Eppure gli scienziati  e i ricercatori che si occupano di neuroscienze  ci hanno mostrato, in questo ultimo decennio, la stretta e continua interdipendenza tra attività psichica e reazioni fisiologiche. Nessuno oggi crede più che la mente e il corpo siano entità separate, che l’essere umano sia costituito da parti autonome tra loro; al contrario è visto come un insieme, corpo e cervello, che si sviluppa integrando i segnali di ogni sua parte assieme a quelli provenienti dall’esterno.

Le neuroscienze hanno spiegato anche che i sistemi nervoso, endocrino ed  immunitario costituiscono un sistema di monitoraggio dell’intero organismo, volto a garantirne la  regolazione e ad assicurarne l’equilibrio e l’adattamento all’esterno.

L’emisfero destro del cervello, preposto a permettere e consolidare l’attaccamento, regola gli stati corporei ed affettivi, elabora le informazioni socio-emotive, e controlla le funzioni vitali indispensabili alla sopravvivenza che consentono all’organismo di affrontare lo stress.  Gli stressor più gravi sono le relazioni interpersonali disfunzionali e traumatiche ( soprattutto quelle vissute nell’infanzia), le esperienze dolorose, le separazioni, i lutti; oltre a questi, dobbiamo tener presente che tutti gli eventi nuovi  sono, per la mente, fattori stressanti. La capacità di tollerare le novità e di affrontare il dolore mantenendo una regolazione dell’emotività è strettamente legata al funzionamento dell’emisfero destro del cervello. Questo si struttura durante i primi anni di vita del bambino nella relazione di attaccamento soprattutto con la figura materna (o con la persona che si occupa  particolarmente di lui) relazione che influenza positivamente o negativamente la maturazione della struttura cerebrale e, quindi, lo sviluppo psicologico del bambino. In ogni individuo, dalla fase intrauterina, ai primi anni di vita,  fino agli eventi e alle relazioni  significative successivi, mente, corpo e contesto interagiscono nella strutturazione dell’organismo.

Come si determina il ruolo condizionante e de-strutturante delle situazioni e degli eventi che provocano gravi stress?
Il sistema nervoso del bambino modula, attraverso processi emotivi e chimici, la regolazione dell’organismo, per garantirne l’adattamento all’ambiente in cui vive e quando vi è un eccesso di stimolazioni o al contrario una carenza di stimoli  si produce lo stress. Certi segnali (interni ed esterni) vengono trasformati in informazioni particolari per quell’ individuo. Divenuto adulto, quel soggetto può non riuscire a gestire certe esperienze, che per un’altra persona possono essere sopportabili o normali, mentre lui diventano particolarmente stressanti, e impedirgli quindi di attivare quella “auto- regolazione” interna, che sola può garantire di affrontare con serenità le esperienze nuove, difficili, dolorose. Quando lo stress  in relazione a fattori soggettivi ed esterni  è troppo alto, diventa  un carico ed un sovraccarico psicologico e fisiologico che  può  innescare una catena di successive alterazioni nel funzionamento dell’organismo. Il sovraccarico psicologico dovuto allo stress  può produrre sregolazioni emozionali e disturbi di ansia, con successivi rischi per la salute.

Perché l’EMDR funziona nella cura dello stress?
In questi anni l’EMDR si è affermata non solo per il trattamento del disturbo post traumatico da stress, dove sono stati evidenziati i suoi effetti positivi sul  funzionamento del Sistema Nervoso Centrale, ma anche per altri disturbi, originati dallo stress, che si trasformano in  disturbi fisici (batticuore, tremito, stato di eccitazione nervosa, mal di testa, disturbi alimentari, disturbi dell’apparato genitale, ecc).

L’EMDR lavorando sulla stimolazione di entrambi gli emisferi cerebrali, ed utilizzando come punto di partenza per il lavoro terapeutico non soltanto i pensieri e le emozioni ma l’esperienza intera,anche negli aspetti: fisiologici e sensoriali, facilita questo legame tra mente e corpo.  Questa terapia, infatti, offre la possibilità di mettere in rete (sia in senso fisiologico che psicologico: creando  insieme sia una rete di sensazioni che una rete di significati), e di intervenire sui pensieri e sui vissuti ma anche sulle sensazioni fisiche correlate: lo psicoterapeuta chiede sempre al paziente “dove sente il disturbo nel suo corpo?”.

Le ricerche scientifiche compiute in questo campo  rivelano che , oltre agli effetti  benefici e rilassanti sul Sistema Nervoso Centrale, l’EMDR è efficace nella cura dello stress e dei disturbi di ansia e di attacchi di panico proprio perché, durante la rielaborazione degli eventi e delle situazioni stressanti,  produce una re-integrazione di tutti gli aspetti psicobiologici correlati per giungere ad una ristrutturazione dell’informazione.

La psicoterapia condotta con l’Emdr  parte dai seguenti assunti di base:

1. Pensieri, emozioni e reazioni fisiologiche  sono correlati tra loro
2. La relazione tra questi elementi incide sulla salute fisica, sul funzionamento del sistema nervoso, sui processi mnemonici, sui comportamenti e sul modo di relazionarsi dell’individuo
3. Reintegrare queste connessioni aiuta la persona a costruire un significato del proprio disturbo d’ansia e quindi ne consente la guarigione. Ricuperare una integrazione mente-corpo perduta è un punto di forza notevole per l’EMDR, poiché il trattamento modifica i parametri fisiologici riducendo nel tempo l’iperattivazione da stress, e arriva ad attenuare e ad eliminare i  sintomi fisiologici prodotti dallo stress.

Può servire un trattamento di psicoterapia immediatamente successivo all’evento traumatico?
De Jongh, direttore  del Center of Psychotherapy and Psychotrauma a Bilthoven (Olanda) e del D.O.E.N., organizzazione che si occupa  del trattamento del trauma, propone  l'utilizzo dell'EMDR, Eye Movement Desensitization and Reprocessing,  nella fase acuta dello stress, quella immediatamente successiva al trauma, possa ridurre le possibilità di sviluppare un disturbo post traumatico da stress Diversi studi hanno mostrato che il supporto offerto alle persone durante le immediate conseguenze di un incidente traumatico raramente le protegge dallo sviluppo di stress post-traumatico. Dall'altro lato, l'esperienza clinica suggerisce che attraverso un utilizzo appropriato dell'EMDR, avviene, quasi spontaneamente, un'integrazione delle percezioni degli input sensoriali e delle componenti cognitive dell'esperienza.

Il servizio fornito dal D.O.E.N., aiuta i sopravvissuti a incidenti e catastrofi a gestire lo stress causato da incidenti critici, e utilizza l'EMDR con persone che, nel periodo immediatamente successivo al trauma, hanno sviluppato  gravi sintomi e per questo necessitano di un trattamento di "primo aiuto". Solitamente si inizia ad usare l'EMDR quando non ci sono segni di cambiamento o ripresa alcuna entro le prime due settimane. Alcune ricerche cliniche  hanno documentato l'efficacia di un utilizzo rapido dell’EMDR con persone coinvolte nell'attacco terroristico dell'11 settembre.

ll background neurofisiologico dell'EMDR
E’ noto che i due emisferi cerebrali hanno delle funzioni diverse e complementari a livello psicologico: quello sinistro, che controlla la parte destra del nostro corpo, ha un punto di vista più positivo, più analitico, permette di guardare avanti e di progettare. L’emisfero destro tende ad essere più olistico, ed è sempre in uno stato di all’erta per l’individuazione di pericoli. Quindi, la stimolazione in modo alternata dei 2 lati, che avviene durante l’EMDR potrebbe stimolare simultaneamente la rete positiva del sinistro mentre vengono evocati i contenuti negativi ed ansiogeni del destro.  La memoria normale permette letteralmente di ri-cordare, cioè permette di ri-assemblare le informazioni immagazzinate in indizi situazionali. Un ricordo traumatico invece, è immagazzinato in modo diverso. Infatti, tutte le immagini, suoni e sensazioni legate al momento originale sono immagazzinate nello stesso modo in cui sono state sperimentate ed è per questo che alcune vengono costantemente ri-sperimentate a livello psicologico.

Gli eventi traumatici incidono sull’equilibrio, causando un cambiamento patologico  negli elementi neuronali, che mantengono così gli eventi nella loro forma ansiogena originale (Pavlov, 1927). Il fatto che rimangano nella memoria attiva, genera tra le altre cose i pensieri intrusivi, flashbacks e incubi.  Shapiro afferma che i movimenti oculari saccadici e ritmici usati con l’immagine traumatica e con le convinzioni dal punto di vista cognitivo ad essa legati restaurano l’equilibrio neuronale, modificando la patologia della rete neuronale e permettendo di  proseguire l’elaborazione dell’informazione fino alla risoluzione. A questo punto si possono veramente aiutare i pazienti ad acquisire e processare nuove informazioni per aumentare il funzionamento adattivo e i nuovi apprendimenti possono avere luogo più facilmente.

L’elaborazione dell’informazione consiste nella comunicazione attiva o condivisione di informazioni tra le reti neuronali. La mancanza di elaborazione è l’incapacità delle reti informative di comunicare tra di loro.  Questo fenomeno è strettamente legato al disagio psicologico, ai disturbi comportamentali, cognitivi, dell’affettività e alle relative conseguenze sull’adattamento.

Le patologie basate sull’apprendimento sono il risultato di informazioni che vengono mantenute nel sistema nervoso in modo non funzionale dovuto ad una elaborazione incompleta. In modo specifico, durante le sedute di EMDR le informazioni disturbanti e  non adattive (emotività negativa, pensieri irrazionali e immagini intrusive), in genere definite come parte della psicopatologia, vengono risolte e gli eventi traumatici possono essere integrati in modo positivo, con la stessa velocità con cui questi elementi erano stati acquisiti. Questo è molto diverso dalle aspettative terapeutiche dei modelli tradizionali di psicoterapia. In realtà permette al cervello di guarire i suoi problemi psicologici alla stessa velocità che il resto del corpo guarisce dai problemi fisici. L’EMDR  promette di essere la terapia del futuro.

La ricerca scientifica sull’EMDR
Attualmente esiste molta evidenza empirica scaturita dalla ricerca condotta con gruppi di controllo, che supportano la validità di questo metodo e nuovo approccio terapeutico.

14 studi controllati hanno rivelato l’efficacia dell’EMDR, facendo di lui il metodo che ha avuto più accurata  ricerca scientifica di tutti quelli fatti nel campo del trauma.  I 5 studi più recenti con soggetti che avevano subito violenza sessuale, combattimento in guerra, perdita di una persona cara, incidenti e disastri naturali hanno concluso che il 84-90% di loro con manifestavano più sintomi di stress legati a questo evento dopo soltanto 3 sedute di Eye Movement Desensitization and Reprocessing.  Uno studio recente finanziato dalla fondazione Kaiser Permanente ha rivelato che l’EMDR, se paragonato ai trattamenti più tradizionali è 2 volte più efficace nella metà del tempo. Nel 1995 il Dipartimento 12 - Psicologia Clinica dell’American Psychological Association ha iniziato un progetto per definire fino a che grado questo metodo terapeutico era supportato da evidenze empiriche solide.  I risultati di questo studio hanno rivelato che l’EMDR è efficace nel trattamento del disturbo Post Traumatico da Stress e che ha un indice di efficacia più alto di altri trattamenti.

Chi fa la terapia EMDR e quanto costa
In Synergia Centro Trauma la terapia EMDR è utilizzata dagli psicologi e psicoterapeuti specializzati nell'EMDR. Il costo è quello delle normali sedute di psicoterapia, che varia da un minino di 70 € a un massimo di 100 €.

I dati sull'EMDR sopra riportati provengono dal sito dell'EMDR Italia, dove peraltro è possibile trovare l'elenco di tutti i terapeuti che in Italia sono iscritti all'associazione EMDR Italia e dati e luoghi dei corsi di formazione per psicologi che vogliono formarsi per questo tipo di psicoterapia.




Come l’EMDR viene usato nella cura del trauma

Negli ultimi 15 anni moltissime ricerche in ambito clinico hanno attestato la validità dell'EMDR nella cura e nella risoluzione del disturbo post traumatico da stress, in una grande varietà di situazioni traumatiche, benché il meccanismo esatto del suo funzionamento sia tuttora oggetto di studio.

L’ Emdr viene utilizzato soprattutto per elaborare le esperienze traumatiche o molto stressanti, poiché potenzia le capacità normali della mente di rielaborare i ricordi negativi. Il terapeuta aiuta il paziente individuare una "cognizione positiva", consistente nel pensiero che il paziente vorrebbe pensare di sè mentre accede al trauma (per esempio "Ora sono al sicuro" oppure "Non è stata colpa mia"). Lo psicoterapeuta, nel corso di una seduta svolta con l’Emdr ha un ruolo di facilitatore e lascia il paziente libero di seguire la sua strada emotiva e cognitiva che permette di associare ai ricordi, le sensazioni e le emozioni disturbanti, fino ad arrivare ad una lettura integrata dell’esperienza.

Non sempre la persona riesce da sola a trovare una via di uscita dalle emozioni e concezioni negative: il terapeuta in questi casi interviene con propri pensieri, punti di vista sull’oggetto dell’analisi per aiutare la persona a risolvere la sua difficoltà e accelerare il processo di cura.

L’ Emdr nella cura del Disturbo Post-Traumatico da Stress 
Dopo aver svolto l'anamnesi, cioè il racconto delle fasi salienti della vita della persona, il terapeuta valuta se si può iniziare il trattamento senza ritraumatizzare il paziente, diversamente lo aiuta a pervenire ad una condizione di sicurezza psicofisiologica, anche usando tecniche di rilassamento, yoga o identificando un luogo sicuro e rasserenante.

La raccolta dei dati attinenti all’esperienza traumatica è un momento importantissimo della psicoterapia, volto a evidenziare gli aspetti cognitivi, emotivi, sensoriali del trauma, con una particolare attenzione rivolta alle sensazioni fisiche. Un accesso complessivo (mente e corpo) alla memoria traumatica massimizza la probabilità che abbia effetto l'intervento terapeutico successivo.

La ricerca ha evidenziato come gli effetti psicobiologici dello stress estremo e del trauma vanno inquadrati nell’ambito delle interazioni mente-corpo e della regolazione allo statica del sistema nervoso.

L’efficacia dell’EMDR nella cura del disturbo post traumatico da stress è dovuta in particolare alla sua caratteristica di ricercare ed utilizzare come punto di partenza per il lavoro terapeutico non soltanto i pensieri e le emozioni ma l’esperienza intera,anche negli aspetti fisiologici e relazionali. Pertanto l’elaborazione dell’informazione (e delle conseguenze) legata ad eventi e situazioni. Stressanti e traumatici passa attraverso una re-integrazione di tutti gli aspetti psicobiologici correlati per giungere ad una ristrutturazione. Questo è un punto di forza notevole per l’EMDR. Questa terapia, infatti, mette in rete (sia in senso biologico che psicologico, svelando sia una “rete di sensazioni” che una “rete di significati”), e di intervenire (ricreando e modulando una  processualità) non solo la cognizione e l’emozione ma anche le sensazioni fisiche correlate ( Il terapeuta chiede sempre al paziente “dove sente il disturbo nel suo corpo?”).  Questa “rete” viene mantenuta attiva, monitorata e “lavorata” durante tutto il trattamento, sino alla significativa “scansione corporea”.

Durante il processo di rielaborazione il terapeuta si ferma periodicamente, quando percepisce che sia terminato un passaggio del lavoro oppure se il paziente appare essere in stallo, e lo invita  a verbalizzare le sensazioni, emozioni o le connessioni ad altri ricordi. In questo modo il terapeuta riconosce la direzione della rielaborazione in atto e consente la ripresa del processo.

Sovente i pazienti affetti dal disturbo post traumatico da stress tendono a dissociarsi e a perdersi nei ricordi terrorizzanti del loro passato, ricreando il trauma pregresso all’interno della psicoterapia. Per riuscire a prevenire ciò, il terapeuta deve mantenersi verbalmente in contatto con il paziente commentando quanto egli vede o sente e ricordandogli che quegli avvenimenti appartengono al passato o aiutandolo a ritornare con la mente nel suo luogo sicuro.

Al termine di ogni incontro, il terapeuta aiuta il paziente a tranquillizzarsi riportando l’attenzione nel proprio luogo sicuro, anche per evitare che il paziente rimanga da solo con ricordi traumatici o stressanti non ancora elaborati.

L’inizio di ogni incontro prevede un momento di riflessione comune sia sulla eventuale comparsa di pensieri, emozioni, sensazioni, ricordi, sogni, connessi alla rielaborazione del trauma, sia sull'opportunità di proseguire il lavoro sul  tema dell’incontro precedente.

Il lavoro sul trauma che si compie con l’Emdr non è mai solo un lavoro sui ricordi del passato, ma li intreccia inevitabilmente con il riconoscimento delle situazioni presenti che innescano tali ricordi  e sulle situazioni future che potrebbero riattivare i comportamenti disfunzionali connessi alle originarie esperienze traumatiche, in pratica è un lavoro sulla rete mnestica, che connette il passato al presente ed al futuro.



Curare i bambini traumatizzati con l’Emdr

Bambini che soffrono sul piano emotivo, che hanno comportamenti patologici e inspiegabili, che si ammalano continuamente possono aver vissuto una o più esperienze traumatiche come un incidente, un evento catastrofico o spaventoso (incendio, terremoto, alluvione) o essere stati vittime di bullismo, di aggressione, di abuso fisico o sessuale. La mente non riesce il più delle volte a registrare in modo chiaro e corretto tali eventi, che continuano a generare disagio e malessere emotivo in chi li ha vissuti.Mentre nelle normali esperienze di vita il cervello registra i fatti avvenuti, i pensieri e  le esperienze emotive correlate, e quindi fornisce un significato a ciò che si è vissuto, questo meccanismo naturale di inceppa quando si vive una esperienza traumatica. La paura intensa, il senso di pericolo e di impotenza ad affrontarlo generano nella mente uno stato di allarme che impediscono la trasformazione dell’evento traumatico in ricordo: la persona rimane in qualche modo “legata” al trauma, come se in parte continuasse a vivere nel passato terrorizzante. Il bambino continua, durante la sua vita, a rivivere questi momenti traumatici, le immagini, i suoni, gli odori, le sensazioni negative e ne è turbato con la stessa intensità di quando i fatti sono avvenuti.

E’ noto che i traumi nel bambino e nell’adolescente sono un fattore negativo nello sviluppo psicosociale e nella loro qualità della vita.  Esiste un’altissima possibilità che i bambini esposti  a stress estremi come quelli di catastrofi naturali o incidenti violenti sviluppino la sintomatologia propria del trauma (disturbi del sonno, sentimento di colpa, regressione, paura, provocazione di reazioni non funzionali dei genitori, ecc) e hanno difficoltà a riprendersi, a meno che ci sia un’assistenza specialistica.  E’ consigliabile trattare i bambini traumatizzati nello stadio iniziale, quando i sintomi sono molto forti e non hanno ancora inciso  sulla personalità.

Le ricerche condotte con questa popolazione hanno dimostrato che l’EMDR è rapido ed efficace. Negli USA l’EMDR è applicato in modo molto diffuso dagli psicologi dell’età evolutiva e non solo hanno riportato buoni risultati ma anche effetti negativi minimi. Ciò nonostante, l’applicazione con i bambini deve essere fatta nello stesso modo di qualsiasi altra terapia, cioè con buon giudizio clinico e tenendo presente tutti gli altri fattori come le condizioni di vita del bambino, la pressione familiare, il contesto scolastico, la motivazione del bambino, ecc.  Quindi alcuni aspetti dell’utilizzo dell’EMDR con i bambini sono tipici di qualsiasi terapia con questa popolazione e cioè:

il bisogno della collaborazione e del supporto dei genitori, il problema di motivare il bambino che non ha richiesto in prima persona la psicoterapia e la tendenza a perdere l’interesse a parlare di certe questioni, a non mantenere l’attenzione focalizzata su un argomento, ecc. Ci sono delle innovazioni legate all’EMDR nella gestione di queste difficoltà e molti terapeuti integrano in modo creativo l‘EMDR con altre modalità che usano normalmente.  Infatti, il lavoro con i bambini è più concreto e basato sulle immagini e meno focalizzato sugli aspetti cognitivi, emotivi o sulle sensazioni. In generale si introducono degli elementi di gioco e il terapeuta deve applicare la procedura in modo flessibile e utilizzando tutta la sua competenza clinica e le sue risorse professionali.

L’EMDR offre un valido aiuto nella psicoterapia non solo per aiutare il bambino a calmarsi e a regolare meglio la sua emotività, quindi per ridurre la sua sofferenza attuale, ma anche per  ridurne l'impatto e le conseguenze nella strutturazione delle sua identità.
 
QUALI RISORSE POSSONO ESSERE INSTALLATE IN UNA PERSONA?
Quando una persona si reca in psicoterapia il più delle volte si sente bloccata e inadeguata a reagire ad una difficoltà, oppure ha disturbi di ansia,  attacchi di panico, depressione, lamenta che la sofferenza dovuta ai suoi problemi le impedisce di vivere bene. Il primo passo verso la guarigione è l’individuazione delle qualità e le risorse che ognuno ha,  sovente rese invisibili da scarsa autostima o da convinzioni errate.Il tema della “installazione delle risorse” è insito alla struttura dell’Emdr, che aiuta la persona a riconoscere,  per ogni convinzione negativa, una positiva, che in qualche modo rappresenta una via d’uscita dalla sofferenza. L’ installazione precede l’elaborazione del trauma, o all’interno di una psicoterapia per altri problemi, come supporto della personalità. Come si procede? Dopo che la diagnosi è stata formulata e condivisa, e vengono individuate le difficoltà correlate,  lo psicoterapeuta richiama uno o più ricordi positivi, riconnettendoli alla memoria con ancoraggi verbali o somatici. Questo aiuta la persona a percepirsi come portatrice di risorse, oltre che di difficoltà, ad usarle nella vita quotidiana e  ad immaginarle nella vita  futura. Sovente le persone sanno riconoscere al proprio interno alcune risorse, e attraverso una indagine riescono ad individuarle: possono essere capacità possedute nel passato, momenti nei quali si è sentita all’altezza delle situazioni, che vengono richiamate alla mente e rafforzate attraverso la stimolazione bilaterale. Altre sono risorse che la persona può immaginare nel futuro,definito come un punto di arrivo a cui puntare, che funziona per orientare l’azione presente.Infine vi sono le risorse costituite dalle persone che ci circondano e ci possono aiutare, con l’ascolto e un sostegno emotivo,  a superare momenti difficili e le risorse spirituali fornite dall’appartenere ad una fede religiosa o da convinzioni sociali, etiche, filosofiche. Le risorse sono alla base di strategie che ci permettono di tranquillizzarci e di gestire pensieri, emozioni e sensazioni fisiche disturbanti.Una esperienza molto positiva è quella di aiutare la persona a rivivere una scena del passato in un modo diverso, più evoluto, compiendo in qualche modo nell’immaginario un’esperienza correttiva che conclude positivamente un avvenimento penoso o negativo. Ad esempio, evocare una scena in cui la persona si sente appoggiata e compresa dopo un evento traumatico.Un altro modo di migliorare la percezione delle risorse personali e della loro potenza curativa  consiste nel localizzarle all’interno del proprio corpo o in un oggetto transizionale oppure in una metafora che simbolizza aspetti di sicurezza, stabilità, progettualità positiva. Per ognuno di questi esempi, si può dire che la capacità dello psicoterapeuta di installare le risorse è sempre legata alla sua creatività e alla conoscenza intima della persona da curare.


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