Il
lutto di una persona molto cara, che si tratti di un compagno di vita o
di un figlio, non è solo un peso a tratti insostenibile, ma anche un
serio rischio per il cuore. Anche se in generale è noto e intuitivo che
una persona provata dal dolore possa subire pesanti ripercussioni a
livello di salute, uno studio dell’Università di Sydney propone un
bilancio quantitativo dei danni di un lutto. Un campione di 78 persone
che avevano subito una perdita entro le due settimane precedenti è stato
monitorato a livello cardiaco 24 ore su 24, confrontando poi i dati a
disposizione con un campione di individui estranei al lutto.
Le
conseguenze più clamorose del lutto recente sono i cambiamenti della
frequenza del battito: se tra i fortunati che vivono una vita normale il
cuore ha una media di 70,7 battiti al minuto, tra coloro che sono
traumatizzati dalla vedovanza o dalla perdita di un figlio invece questa
frequenza sale a 75.1 battiti al minuto, il che rappresenta una
risposta normale all’ansia e alla tristezza. Ma la condizione osservata
con maggior preoccupazione dal team australiano, guidato dal professor
Thomas Buckley, è l’irregolarità cardiaca che interessa le persone che
stanno vivendo un lutto e che può portare a seri rischi per la salute se
il problema viene sottovalutato. In generale tra questi ultimi è stata
registrata una media di 2,23 episodi di tachicardia nelle prime
settimane successive al lutto, contro gli 1,23 episodi che si presentano
normalmente in una vita tranquilla. Consola però pensare che dopo un
periodo di circa sei mesi il cuore delle persone colpite da una perdita
definitiva torna normale, anche quando le cicatrici non sono certo
guarite. Ma se il battito cardiaco torna a uniformarsi ai valori
normali, la tristezza resta ancora per molto tempo. Forse per sempre.
L’équipe
ha preso in esame infatti anche il tasso di depressione dei volontari,
attribuendo un punteggio a ciascuno in termini di tristezza. Il
risultato è che tra le persone colpite da lutto il livello di
depressione è di 26,3, mentre tra i volontari privilegiati (non a lutto)
il tasso di depressione considerato nella norma è stato fissato a 6,1.
In questo caso dopo 6 mesi si ha un calo significativo della
disperazione e una normalizzazione, ma la depressione rimane 3 volte più
alta nei vedovi e nei genitori che hanno perso un figlio rispetto a chi
non conosce questo dolore.
Come
ha precisato Richard Stein, della New York University School of
Medicine, lo studio rappresenta un primo e significativo passo in avanti
nel cercare di comprendere e misurare le conseguenze del cordoglio,
anche per poter monitorare e aiutare meglio coloro che sono colpiti da
un trauma del genere. Quello che emerge è la maggior reattività del
fisico rispetto alla mente. Il cuore accelera e rischia molto, specie
nelle persone che hanno una predisposizione verso le patologie
cardiache, ma dopo appena sei mesi torna esattamente come prima. La
psiche invece farà molta più fatica a tornare come prima. E non sempre
ci riuscirà: spesso non da sola.
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